Una trattativa lunghissima, iniziata dal 2013, accompagnata da tante voci discordanti ed un certo scetticismo, destinata, con ogni probabilità, a non portare a niente. Il Transatlantic Trade & Investment Partnership, meglio conosciuti con il suo acronimo, TTIP, l’accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziato tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, “incassa” lo stop della Germania, leader economico e politico dell’Unione Europea: il Ministro dell’Economia e vice Cancelliere di Berlino, Sigmar Gabriel, ha di fatto messo la pietra tombale sulle trattative, sottolineando come, nei quattordici incontri che si sono tenuti finora Stati Uniti ed Unione Europea non hanno trovato una convergenza su alcuno dei 27 punti che sono in fase di discussione. Una presa d’atto che fa rumore, a poche settimane dalle elezioni americane che, di fatto, rischiano di scrivere la parola fine sul TTIP, che non piace a nessuno dei candidati alla Presidenza, né ad Hillary Clinton, né a Donald Trump.
Difficile dire se sia una buona notizia o meno, ma di certo dal mondo enoico le trattative per il TTIP non hanno mai scaldato i cuori, tanto che l’Arev - Assemblea delle Regioni Europee Viticole, aveva messo in guardia gli Usa già nell’ottobre del 2015, chiedendo la rinuncia all’utilizzo di 17 indicazione geografiche europee “semigeneriche” (Burgundy, Chablis, Champagne, Chianti, Claret, Haut-Sauterne, Hock, Madeira, Malaga, Marsala, Moselle, Port, Retsina, Rhine, Sauterne, Jérez-Xérès-Sherry e Tokaj) e di denominazioni tradizionali europee (château, classic, clos, cream, crusted/crusting, fine, late bottled vintage, noble, ruby, superior, sur lie, tawny, vintage et vintage character, vendanges tardives, sélection de grains nobles), oltre ad una serie di ulteriori tutele.
Scettico anche il mondo agricolo, con la Coldiretti che, non più tardi di tre mesi fa, ricordava all’Europa come non si dovesse, in alcun modo, rinunciare agli elevati standard di qualità raggiunti nell’agroalimentare ma, al contrario, bisogna guardare alle domande che vengono dal mercato sia in Europa che in Usa, ed innalzare il livello di sicurezza dei prodotti perché se è vero che per i nostri consumatori è inaccettabile la carne trattata agli ormoni, il pollo varechinato, piuttosto che la carne clonata, è altrettanto vero che anche negli Usa cresce solo la domanda di prodotti made in Italy legati al territorio e garantiti dal punto di vista della sicurezza alimentare ed ambientale.
Eppure, il TTIP non è un trattato da buttare, il fine ultimo sarebbe utile, specie ad un Paese esportatore come l’Italia, e permetterebbe una via preferenziale al mercato Usa, il più ricco e importante al mondo. Peccato che sul tavolo i punti di scontro siano ancora tutti lì, da anni, irrisolti, a raccontare la distanza tra mondi diversi, commercialmente affini, certo, ma con una storia ed un approccio, specie quando si parla di agroalimentare.
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