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SE IL “PADRONE STRANIERO” NON È SEMPRE UN MALE PER L’AGROALIMENTARE MADE IN ITALY. DAI CAPITALI USA CHE CREARONO BANFI NEGLI ANNI ’70, ALLA CRESCITA DI RUFFINO, NEI GIORNI NOSTRI, SOTTO L’EGIDA DEL COLOSSO CONSTELLATION BRANDS

Un altro marchio del made in Italy enogastronomico passa in mani straniere: Averna ha venduto il gruppo Pernigotti, storica griffe dolciaria piemontese, al gruppo di investitori turchi Toksoz. Ed è solo l’ultimo di una lunga serie di marchi dell’agroalimentare italiano passati in mani straniere: da Parmalat ai francesi a Fiorucci agli spagnoli, per esempio. E anche nel vino, come abbiamo scritto spesso, non mancano casi eclatanti, come Gancia, marchio storico del vino piemontese, diventato proprietà del fondo di investimento russo Russian Standard Corporation del magnate Rustam Tariko, o Argiano, a Montalcino, oggi dell’imprenditore brasiliano Andrè Santos Esteves , per dirne alcuni. Ma se in tanti considerano il fenomeno come spia di allarme di un’Italia “in saldo”, in tanti casi l’arrivo di capitali e proprietà straniere è quanto mai positivo. È il caso storico di Banfi, la cantina voluta negli anni ‘70 a Montalcino dalla famiglia americana Mariani, il cui contributo alla sviluppo economico dell’economia del Brunello è indiscutibile. O quello, per venire ai giorni nostri, della chiantigiana Ruffino, che da ottobre 2011, è al 100% del colosso americano Constellation Brands. Ma che non ha perso nulla della sua italianità e “chiantigianità”, e che anzi ha beneficiato, in termini di mercato e di innovazione, del suo nuovo corso. “In settori non delocalizzabili come il vino, non conta il passaporto dell’imprenditore, ma la sua capacità - spiega a WineNews l’ad di Ruffino, Sandro Sartor - anche perché chi investe nel made in Italy sa che l’italianità è un valore fondamentale, e non ha nessuna intenzione di privarsene. Anzi, in Ruffino in due anni abbiamo fatto più innovazione che nei 10 precedenti, recuperando in chiave moderna la tradizione del fiasco, per esempio, che ci sta dando grandi risultati in Europa e che siamo pronti a testare in America”. E i risultati della nuova gestione si sono visti: il fatturato 2012, si è chiuso a 64 milioni di euro, +15% su un 2011 già in crescita sul 2010. E se è vero che il 90% arriva dall’estero, anche grazie alle economie di scala possibili in un gruppo con quello americano, si continua ad investire sul mercato italiano. “In termini assoluti, non ci sono grandi margini di crescita. Ma tanti grandi player lo stanno abbandonando, smantellando la rete vendita. E quindi si aprono degli spazi. Noi abbiamo appena assunto un nuovo direttore vendite Italia, Marco Agresti, e investiremo di più in comunicazione nel Belpaese. Perché un prodotto italiano è ambito all’estero se è forte anche in Italia”.

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