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ARCHEOLOGIA “AGROALIMENTARE”

Selinunte, non solo la scoperta dell’antico porto: gli olivi secolari tornano a produrre olio

Un nuovo progetto che fa rinascere l’agricoltura nei Parchi archeologici italiani, dalla Valle dei Templi di Agrigento a Mozia, da Pompei al Colosseo

Dopo l’eccezionale scoperta dei resti dell’antico porto commerciale, che potrebbe contribuire a riscrivere la storia della più importante colonia greca in Sicilia, Selinunte ha in serbo un’altra sorpresa: 1.500 piante di olivi secolari della cultivar Nocellara del Belìce nei 18 ettari di oliveti all’ombra dei templi del Parco Archeologico più grande d’Europa, che custodisce tesori dal inestimabile valore, tornano a produrre olio extravergine biologico, grazie all’azienda Centonze, che ne ha ottenuto l’affidamento per sei anni e i cui agricoltori le hanno rimesse in produzione. La prima raccolta avverrà in ottobre e l’olio sarà confezionato in latte con la dicitura “olio da uliveti monumentali”.
“Coltivare gli olivi del Parco archeologico è come chiudere una filiera - spiega Nino Centonze - proprio perché dentro la nostra azienda a pochi chilometri da Selinunte, si trovano le latomie da dove veniva estratta la roccia per i templi. Così combiniamo buon prodotto offrendo ai nostri clienti anche la visita a questo territorio straordinario”. “Da alcuni anni portiamo avanti un progetto di rivalutazione dei terreni che erano incolti dentro il Parco - spiega il direttore Felice Crescente - nell’ottica di arricchire l’offerta ai visitatori, ma anche di riprendere la storia dell’antica città dove esistevano certe colture in alcuni spazi dell’area extraurbana”. La produzione d’olio di quest’anno arricchisce il “paniere” targato Selinunte, e l’olio extra vergine d’oliva prodotto dagli olivi a ridosso dei templi e con etichetta che richiama le colonne antiche, sarà, in parte, inserito nei circuiti commerciali dell’azienda Nino Centonze che esporta già in 35 Paesi nel mondo. Nel Parco Archeologico di Selinunte, infatti, da anni si moltiplicano le iniziative per rimettere in produzione gli spazi verdi incolti: ampi lotti di seminativo nella zona della Malophoros vengono gestiti dal Consorzio G.P. Ballatore e custoditi dal mugnaio di Castelvetrano Filippo Drago che ha piantato antichi grani (tumminia, maiorca e perciasacchi) per poi farne farina e pasta a marchio Selinunte; l’apicoltore Vito Salluzzo ha posizionato dentro al Parco 40 arnie di api; e, negli anni scorsi, grazie al progetto “Settesoli sostiene Selinunte”, le Cantine Settesoli hanno contribuito a valorizzare il Parco con la vendita di vini dedicati.
Un nuovo progetto che fa rinascere l’agricoltura nei Parchi archeologici più importanti d’Italia, come avviene anche nella Valle dei Templi di Agrigento, Patrimonio Unesco, dove nei vigneti sotto il tempio di Giunone la Cva Canicattì, in collaborazione con l’Ente Parco, produce il vino Diodoros, dai vitigni Nero d’Avola, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio. Tasca d’Almerita si prende cura, invece, dei vigneti storici dell’isola Mozia, l’antica città fenicia Riserva naturale e archeologica tutelata dello Stagnone di Marsala di proprietà della Fondazione Giuseppe Whitaker, e dove Joseph “Pip” Whitaker, commerciante inglese e archeologo dilettante, piantò la vite nell’Ottocento per produrre un vino, il Marsala, che potesse competere con il Madeira e il Porto, producendo il Grillo Mozia con il marchio Tasca d’Almerita-Fondazione Withaker.
Sito archeologico tra i più importanti al mondo, Patrimonio Unesco, Pompei è un vero e proprio giacimento di archeologia “agroalimentare” che con le sue continue scoperte, dal termopolio della Regio V, “bottega di street food” ante litteram, all’affresco che ritrae un piatto che assomiglia ad un “antenato” della pizza, continua a svelare al mondo la bellezza della convivialità fin dai tempi degli antichi romani e rimasta “cristallizzata” nella città sommersa dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. tra le cui rovine si contano qualcosa come 80 “botteghe alimentari”. E dove, oggi, la vite rinasce grazie a Mastroberardino che dai vigneti tra le rovine, produce il vino Villa dei Misteri, uvaggio di Aglianico, Piedirosso e Sciascinoso, con il Laboratorio di Ricerche Applicate del Parco, mentre, con le sue ricerche sulla cucina pompeiana, lo chef Paolo Gramaglia, una stella Michelin al ristorante President con vista sugli scavi, porta in tavola ricette dell’antichità e piatti che le reinterpretano, a partire dai “panis”, che erano prodotti a Pompei in ben 35 panifici e in 10 diversi tipi, dal Panis primarius al Panis siligineus, dal Panis artalaganus al Panis vulgaris.
Anche il Parco Archeologico del Colosseo, Patrimonio Unesco, non è solo un sito archeologico ma anche una grande area verde che comprende il Foro Romano ed il Palatino e si estende per oltre 40 ettari nel cuore della città di Roma. Un “parco naturale” che, nella sua toponomastica, conserva a tutt’oggi delle aree denominate “vigna”, ovvero orti, nel senso più esteso del termine, e dove indagini archeologiche e carte storiche ben documentano la presenza di vigneti. Da qui l’idea di impiantare una piccola vigna sul Colle Palatino: “Vigna Barberini”, dalla famiglia romana che nel Seicento ne deteneva la proprietà, grazie alla collaborazione con l’azienda Cincinnato, che ha curato la messa a dimora delle barbatelle di Bellone, varietà nota anche come Cacchione, un vitigno antichissimo e autoctono che lo storico Plinio il Vecchio chiamava “uva pantastica” nella sua opera enciclopedica “Naturalis Historia”, e coltivato ancora oggi nelle province di Roma e di Latina, la cui prima vendemmia è prevista proprio nel 2023, mentre già si producono il “Palatinum”, l’“Olio di Roma” frutto di 200 olivi, da quelli centenari dell’Arco di Tito a quelli di recente piantagione, e l’“Ambrosia del Palatino”, il “Miele di Roma”. Sullo sfondo di un paesaggio nel quale l’agricoltura si intreccia con la storia e l’archeologia, e dove fin dall’antichità, come racconta Plinio, erano presenti le piante-simbolo della storia della nostra civiltà: “Ficus, Olea et Vitis”.
Anche per questo, tra le ultime case history che vedono il vino prendersi cura dell’immenso patrimonio culturale italiano, Banfi, cantina leader del Brunello di Montalcino, è tra gli sponsor del restauro degli straordinari bronzi scoperti a San Casciano dei Bagni, presentati per la prima volta al pubblico nella mostra “Gli dei ritornano” al Palazzo del Quirinale a Roma (fino al 25 luglio e dal 2 settembre al 29 ottobre).

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