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VINO & COMUNICAZIONE

Stefano Milioni: “il vino italiano deve tenersi stretto il fascino, non solo sapori e retrogusti”

Lo scrittore a WineNews: “su ogni vigneto italiano al tramonto si allunga l’ombra di un campanile e questo non succede in nessun altra parte al mondo”

“Raccontare la bellezza del vino italiano, legandola alle storie delle aziende ed a quelle dei suoi territori, è fondamentale. È da un po’ di anni che vivo all’estero e quello che vedo è una crescita aggressiva in comunicazione dei Paesi emergenti. Se ti metti a discutere di sapori e retrogusti spesso perdi, mentre dovremmo tenerci stretti il nostro fascino. Su ogni vigneto italiano al tramonto si allunga l’ombra di un campanile di un’abbazia o di una torre di un castello, e questo non succede in Spagna o in Francia, in Germania o in California. Questo non vuol certo dire che quell’ombra rende l’uva migliore, ma chi lavora quella vigna vive in un contesto d’eccellenza, visiva prima che culturale, e non pianta un filare storto, perché non può. E non si deve per forza andare a Montalcino, ma anche a Pitigliano, a Frascati o a Velletri, tutti nei territori del vino italiano vivono in un contesto del genere. Se riusciamo a far capire che un vino è prodotto in un ambiente del genere, già gli diamo una marcia in più”. Lo ha detto, a confronto con WineNews, Stefano Milioni, voce storica della comunicazione del vino in Italia, secondo il quale “non serve tanto andare a dire che questo vino è prodotto da qualcuno che ha fatto un corso a Bordeaux o un Master. Sì, conta, ma lo più fare chiunque, anche chi riuscirà a coltivare vigne al Polo Sud. Il problema che ha il vino italiano sono le pagliacciate che si vedono sugli scaffali del mondo, dalle Americhe al Giappone, dove non si può trovare un Prosecco che si chiama “Amor” perché è una parola da cinema, ma potrei dire lo stesso di un Pinot Grigio, perché sono i vini che scontano di più il “grip” che hanno. Dobbiamo, invece, raccontare che questi vini sono prodotti da persone che vivono in un certo modo e in un certo ambiente, e che non possono essere fatti male”.
Questo anche perché, secondo Milioni, autore di più edizioni del “Catalogo Generale dei Vini d’Italia” dagli Anni Ottanta del Novecento, coautore di molte pubblicazioni e libri come “Il Romanzo del Vino” (con Giovanni Negri), e “Miglior Scrittore del Vino 2022” agli “Oscar del Vino” della Fondazione Italiana Sommelier-Fis e Bibenda di Franco Maria Ricci, “oggi si parla tanto di cultura del vino, ma, a partire proprio dai media, ne abbiamo un concetto dominante del tutto errato: pensiamo che la cultura siano le opere e le statue, quando invece è come queste producono cultura entrando a far parte della vita quotidiana della gente. È come dire che i “Beatles” sono cultura, quando invece hanno fatto cultura, nelle persone che li hanno amati ed ascoltati. E come le canzoni ci sono vini che fanno cultura. Ricordo che, alla fine degli anni Settanta, c’è stato un periodo in Italia in cui a fare cultura è stato un vino portoghese, il Mateus, che specie per la fascia bassa della popolazione voleva dire togliersi uno sfizio. E con il Lancers rappresentano gli unici due veri e propri fenomeni di rosati cha abbiamo avuto nel nostro Paese, poi finiti lì. Non è Biondi-Santi che fa cultura, sono i suoi vini che diffondendosi nel mondo diventano un momento della vita di chi li compra su uno scaffale, li sceglie da una carta dei vini e li beve. Perché se io faccio un’opera d’arte come la “Pietà” di Michelangelo” e la tengo in garage, non è cultura”.
La comunicazione del vino è ovviamente migliorata in 50 anni, spiega Milioni, tanto è lunga la sua storia professionale iniziata negli Anni Sessanta del Novecento, tra marketing e comunicazione, legata anche a Castello Banfi, la cantina che ha portato il Brunello di Montalcino nel mondo, accanto all’enologo-manager Ezio Rivella, ed a Feudi di San Gregorio, chiamato da Pellegrino Capaldo nella griffe che ha fatto conoscere l’Irpinia ed i suoi vini all’estero, viaggiando tra l’Italia e gli Usa, ricoprendo incarichi per l’Ice, l’Istituto Italiano per il Commercio Estero, fino al “buen retiro” in Aruba. “Ma è anche peggiorata. Chi scriveva di vino 50 anni fa scopriva la tecnica e cercava di “scimmiottare” i segreti di come si fa il vino. Da qui la grande discussione se il vino si fa in vigna o in cantina. Oggi si è spostata troppo sulla degustazione, cioè sul descrivere i vini in termini di assaggi e non di consumo, dimenticandosi la piacevolezza. Però, contemporaneamente, si è allargata molto la platea di chi beve meglio, non si fa grandi problemi a spendere un po’ di più, tant’è che il prezzo medio a bottiglia negli acquisti è aumentato, e questo ha portato tutto il settore a cercare di crescere per offrire un prodotto in grado di attirare persone sempre più informate, come una volta si faceva con il prezzo o con la notorietà”. Per Milioni, “ultimamente è pieno di gente che si parla addosso e che dice cose che capiscono solo loro. Un tempo ai corsi dei sommelier si imparavano i descrittori per far capire come era un vino a chi non lo conosceva. Oggi ci sono descrittori che non trovi nemmeno su Wikipedia. Un esempio sono i metalli, che tutti sentono, come il tungsteno: ma che sapore ha? Ma sono fenomeni negativi che vengono da una crescita della comunicazione non dalla sua mancanza. Di pari passo con la sua crescita, ad essere cambiata invece in positivo è la comunicazione da parte di quei produttori che 20-30 anni fa ti parlavano di pigiatrici, che era come se Armani dicesse che marca di macchina da cucire usava. Al consumatore non gliene frega niente, allora come oggi, e per fortuna”.
Un aumento esponenziale quello della comunicazione del vino che è andato di pari passo con la crescita qualitativa del vino italiano, che ha contribuito e contribuisce a far conoscere ed apprezzare nel mondo. “Il parlarne, vedersi sui media della serie “tutti ne parlano”, ha costretto i produttori a migliorarsi. Ci sono state due tendenze: eccellere e distinguersi. Negli ultimi anni ha preso molto più piede il distinguersi davanti agli occhi del consumatore, e si fanno cose che non mirano all’eccellenza, ma il vino in anfora, le barrique numerate con la mappa del bosco da cui proviene il legno, persino l’affinamento nel marmo. Addirittura c’è chi si distingue “al ribasso”, raccontandosi “puro e vergine”. Un fenomeno - conclude Milioni - che contraddistingue tutti i settori merceologici in evoluzione, semplicemente perché è più facile distinguersi che eccellere”.

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