Possiamo definire “italiana” un’esperienza gastronomica basata sulla diversità e sull’ibridazione culturale? Quale valore identitario riconoscere a ingredienti o ricette o modalità di preparazione che la nostra cucina ha mutuato da altre culture? O, viceversa, alle esperienze italiane assorbite da altre culture? Seguendo il filo di queste e altre domande, Massimo Montanari e Pier Luigi Petrillo, nel libro “Tutti a tavola” (Editori Laterza, 113 pagine, 15 euro), chiariscono il senso della candidatura a Patrimonio Unesco, che riguarda la cucina italiana come realtà profondamente incorporata nella cultura e nel sentire quotidiano, non solo nelle sue espressioni più alte ma anche e soprattutto nella “normalità” delle pratiche comuni. In attesa, dopo il parere positivo, nei giorni scorsi, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, al dossier di candidatura, del voto definitivo atteso nel Comitato Intergovernativo dell’Unesco che si riunirà in India, a New Delhi, dall’8 al 13 dicembre.
Gli italiani hanno grande confidenza con la cucina e, come spesso (e giustamente) si dice, parlano sempre di cibo, mettendo tutto in discussione. Non è un caso che la cucina italiana si possa definire soprattutto per ciò che non è: non monolitica, non codificata, ma fondata su principi di libertà e di inclusione. L’opposto dello sciovinismo, del sovranismo o del fondamentalismo gastronomico. Proprio per questo è da considerare un patrimonio universale, secondo il libro.
Massimo Montanari, professore emerito di Storia Medievale all’Università di Bologna, dove ha fondato il Master “Storia e cultura dell’alimentazione” (qui la nostra intervista), e Pier Luigi Petrillo (che abbiamo intervistato qui), professore ordinario di Diritto pubblico comparato e docente di Antropologia della globalizzazione all’Università Sapienza di Roma, hanno coordinato la redazione del dossier di candidatura della cucina italiana come Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Secondo Petrillo “non ci sono ricette, non ci sono prodotti, non ci sono ingredienti, noi candidiamo il significato culturale del cucinare”.
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