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CONGRESSO ASSOENOLOGI N. 73

Angelo Gaja: l’artigiano del vino nel Rinascimento enoico italiano in direzione ostinata e contraria

Da Ferruccio Biondi Santi ad Aldo Conterno, quando il pensiero critico si fa rivoluzione, così nasce il vino di qualità nel Belpaese

Sono tre i pilastri su cui poggia il vino italiano: i grandi gruppi, le cooperative e quelli che Angelo Gaja, produttori iconico non solo del Piemonte ma di tutto il Belpaese, chiama gli “artigiani del vino”, che, come ricorda dal Congresso n. 73 di Assoenologi di scena a Trieste, “hanno un ruolo ben preciso: sono quei produttori che hanno il controllo dal vigneto, producono uve proprie, le uniche che vinificano, e vanno sul mercato, e questo comporta la conoscenza di tre settori: viticultura, cantina e mercato, ossia la capacità di creare domanda e collocare i propri prodotti. Gli artigiani, quindi, svolgono un ruolo fondamentale, specie se si pensa che dalla fine degli anni Cinquanta e fino ai primi anni Ottanta, l’idea dell’industria del vino era quella di una qualità standard ad un prezzo contenuto, come se non potessimo lavorare in altro modo. Ma c’erano produttori - ricorda Gaja - che miravano all’eccellenza, lavorando su piccole quantità ed imponendo prezzi più elevati, mentre la stragrande maggioranza del vino che andava sui mercati esteri, come detto, doveva avere un prezzo basso, sulla scia di una nomea affibbiataci dagli inglesi, secondo i quali il nostro vino era “economico e divertente”. In questo senso, gli artigiani, quindi i piccoli vignaioli, si sono rivelati fondamentali nell’aiutare il vino italiano a crescere in immagine; sono andati in direzione ostinata e contraria, e non è stato facile”.
È il pensiero critico che vince sul pensiero unico, e dove questo non è stato possibile, a ben guardare, il vino di qualità non ha avuto alcuna chance.
“Nella Russia di Stalin - riprenda il vignaiolo del Barbaresco - la produzione, su enormi vigneti, era limitata a due Regioni, la Moldova e la Georgia, gestite da grandi Cooperative collegate al centro politico di Mosca. La condizione era che si producessero vini di basso prezzo, affinché fosse accessibile a tutti. Senza artigiani, non si sono potuti costruire vini d’eccellenza, o che mirassero all’eccellenza. A differenza di quant accaduto in Russia, in Italia, negli anni, anche le grandi aziende hanno introdotto elementi di artigianalità alle proprie produzioni, ed il settore piano piano si è aperto a nuove idee e nuovi progetti”.
Non è, però, una rivoluzione senza “padroni”, al contrario, nella storia dell’ultimo secolo e mezzo di enologia italiana, ci sono stati veri e propri rivoluzionari, ecco perché il pensare diverso va aiutato. Ad esempio, “Ferruccio Biondi Santi, che nella seconda metà dell’Ottocento puntò sulla produzione di un grande vino da uve Sangiovese: una sfida in direzione ostinata e contraria, sostenuta da un prezzo elevato, allora quasi una bestemmia. Oggi è un mito, a Montalcino devono ringraziare un artigiano. Così, Mario Incisa della Rocchetta con il Sassicaia, grazie all’aiuto di un enologo straordinario come Giacomo Tachis - riprende Angelo Gaja - che veniva da una cantina enorme come Antinori. Ma anche Edoardo Valentini, che cinquant’anni fa, in Abruzzo, si mise in testa di fare un grande vino bianco da Trebbiano, una varietà usata più per la quantità che per la qualità: oggi è uno dei più grandi bianchi d’Italia. E ancora, Josko Gravner, Arianna Occhipinti, Walter Massa, Angiolino Maule: sono artigiani, e stanno cambiando il volto del vino italiano con le loro idee e le loro riflessioni. Per Gravner, ad esempio, la produzione americana è un esempio da non seguire, la viticoltura andrebbe fatta solo in collina, l’irrigazione non andrebbe permessa. Walter Massa, invece, è stato fondamentale nel recupero di una varietà come il Timorasso. Angiolino Maule ha portato avanti la sua lotta per i vini naturali e puliti, il più possibile. Questi signori - sottolinea Gaja - fanno pensare a prescindere dai volumi che producono”.
E poi, ci sono i protagonisti del vino di Langa, come “Bartolo Mascarello, signore di campagna con una ricca biblioteca, ha sempre avuto a cuore il paesaggio e la sua cura, magari con qualche contraddizione, ritenendo che i produttori di Langa sarebbero rimasti senza vigneti per colpa degli imbottigliatori e dei grandi gruppi, e abbiamo visto che non è andata così, e non vedeva nemmeno di buon occhio i Barolo Boys, ma è stato un grande. Con la sua etichetta “No barriques no Berlusconi” scoprì un mondo a lui sconosciuto, quello del marketing, tanto da dover alzare il prezzo per rispondere alla crescita della domanda. Aldo Conterno, invece, negli anni della crisi, tra il 2008 ed il 2009, quando non si riusciva a vendere ed i magazzini erano pieni, un periodo d’inferno, disse: “è dura, hanno smesso di comprare anche quelli che non pagano, ma noi siamo qui come sopra una roccia, e se non lo comprano lo teniamo, migliorerà e glielo venderemo ad un prezzo ancora più alto”.
Ciò che accomuna tutti, senza dubbio, è “la passione, che non è una cosa facile da gestire, è un tormento, ti spinge su una strada, a volte in direzione ostinata e contraria, ma questi uomini avevano di certo una capacità eccezionale di stare sul pezzo. Oggi, è sempre più importante un atteggiamento virtuoso in cantina ed in vigna, ed in questo senso i primi a preoccuparsene davvero sono stati i biodinamici, poi sono arrivati i biologici, oggi i naturali, che non hanno una certificazione, eppure - spiega ancora Angelo Gaja - non esiste un aggettivo più bello, così come non c’è uno standard, se non la minor manipolazione possibile. Quella del vino naturale, nel mondo, rappresenta una porzione infinitesimale della produzione, ma costringe gli altri a dire come producono il loro vino, alzando l’asticella della qualità in una rincorsa positiva alla naturalità. Tutti quello che hanno utilizzato questi termini hanno fatto qualcosa di buono in termini di attenzione in vigna ed in cantina. Ad un certo punto - continua il produttore piemontese - ci si è accorti che ci sono consumatori che condividono certi principi, anche nell’imperfezione, spesso vista come un passaggio doveroso verso la strada della naturalità”.
La sostenibilità, che torna sempre più spesso nel racconto del vino, e che si fa “resilienza, ossia la capacità, da parte degli artigiani, di sapersi adeguare al cambiamento, uscendone indenni. Fino agli anni Ottanta, come detto, il vino era legato alla sua industria ed a standard ben precisi, ma oggi il prezzo per litro è ancora tra i più bassi al mondo, per cui questa nostra ricchezza dobbiamo imparare a farcela pagare. Dobbiamo recuperare, anche in termini di artigianalità, magari costruendo attività separate, cantine che facciano solo alta qualità, introducendo concetti di artigianalità, come hanno fatto diverse grandi aziende in Spagna, Torres ad esempio. Nella piramide del prezzo - conclude Gaja - il vertice ha bisogno di una linea tutta sua, che esprima qualcosa di diverso dal resto della produzione. E se gli artigiani non sono necessariamente il meglio del mondo produttivo, sono complementari ai grandi produttori, e vanno sostenuti. Prima di tutto sburocratizzando il settore del vino, con un lavoro da parte della politica che sia continuato nel tempo”.

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