C’è chi ha sostenuto e sostiene che certi “odori anomali”, nel vino, non siano difetti tout court, bensì espressioni di tipicità. Ma non c’è nulla di più sbagliato, perché questi odori sono simili in ogni parte del mondo, nascono da errori nel processo produttivo, e sono un malus per l’espressione dell’unicità reale del binomio tra vitigno e territorio, perché “il grande vino deve essere la meravigliosa sintesi liquida dell’ambiente pedoclimatico in cui nasce”. Ecco, in sintesi, il pensiero del professor Luigi Moio, ordinario di enologia dell’Università Federico II di Napoli che, nel convegno di scena al “Padiglione Vino” di Expo 2015, a Milano, organizzato da Vinitaly, ha detto chiaro e tondo che, a suo parere, “il futuro dell’enologia è nella ricerca della superqualità”.
“La sostenibilità ambientale, la custodia del suolo e degli areali di produzione, il rispetto delle piante e della salute degli uomini, sono aspetti attualissimi nel modo del vino e non solo. Tuttavia tali obiettivi, altamente etici - spiega Moio - dovrebbero essere perseguiti senza perdere di vista quelli estetici. Il vino di elevata qualità deve essere buonissimo. Ma che cosa s’intende per vino buonissimo? Impulsivamente si è portati a pensare che il buono sia ciò che piace, ma nel caso del vino non è possibile non considerare che i suoi profumi e il suo sapore debbano essere espressione purissima della vigna e della situazione pedoclimatica in cui essa vegeta. Questa peculiarità del vino, se vogliamo semplicissima nella sua concezione, è alla base dello straordinario fascino che esso emana, oltre ad essere l’essenza stessa di concetti come terroir e crus che rendono unici i grandi vini. L’impossibilità di riprodurre in altri luoghi del pianeta un’analoga situazione naturale costituita dall’insieme vigna-suolo-clima, è la forza e la magia di vini come Petrus, Romanée-Conti, Chateau d’Yquem. Dunque, il grande vino deve essere la meravigliosa sintesi liquida dell’ambiente pedoclimatico in cui nasce”.
Concetti affascinanti che, secondo Moio, sono alla base del crescente interesse nei confronti del vino. Ma tradurli in realtà non è così semplice come molti credono. “Questa diffusa convinzione - spiega il professore - è semplicemente dovuta al fatto che è veramente difficile riconoscere in un vino gli elementi sensoriali della sua unicità legata all’ambiente pedoclimatico in cui vegeta la vigna. A ciò bisogna aggiungere che negli ultimi anni con la grande enfasi data sostanzialmente solo agli aspetti ambientali e salutistici, si è accresciuta in modo clamoroso e inesorabile la confusione su quest’aspetto fondamentale del vino di qualità. Ciò è accaduto, innanzitutto perché si è sempre evitato di riflettere sul semplice e ovvio concetto che per ottenere un vino che sia vera espressione della vigna e del suo suolo bisogna necessariamente evitare la genesi di odori anomali durante il lungo e complesso processo produttivo che dall’uva conduce al vino. Gli odori anomali sono dei difetti olfattivi che predominando sugli odori propri del vino ostacolano il riconoscimento sensoriale dei veri caratteri di tipicità territoriale. Ma l’aspetto più illogico del continuo brusio prodotto nel campo del vino parlato negli ultimi anni è che non si è mai considerato che i difetti d’odore, se presenti, sono sempre gli stessi in tutti i vini e in tutte le zone del mondo, indipendentemente dalla varietà di uva, dalle tecniche di coltivazione della vite, dall’età della vigna, dai metodi di vinificazione e da tante altre innumerevoli variabili. Addirittura in modo davvero paradossale essi sono sempre più frequentemente associati a caratteri di tipicità territoriale mentre al contrario i difetti d’odore annullano in modo spettacolare ciò che s’immagina di rendere sensorialmente evidente in un vino, ossia la sua unicità territoriale”.
Anche per questo, secondo Moio, in futuro si dovrà andare verso una viticoltura ed un enologia sempre più specifica per ogni vitigno in ogni territorio. “La specificità chimica e biochimica dei differenti vitigni richiede, in futuro - dice Moio - di adottare sempre più un’enologia intelligente plasmata su ogni varietà di uva e in perfetta sintonia con le peculiarità pedoclimatiche del luogo. Tale strategia è indispensabile per amplificare gli effetti dell’ecosistema e dell’andamento climatico naturale sul ciclo vitale della vigna, in modo tale da creare i presupposti per i quali odore, gusto e aroma del vino possano essere purissima espressione di una vigna. Molti vitigni storici italiani, non presentando un’elevata identità odorosa varietale sono particolarmente adatti a esprimere i caratteri di territorialità dei loro specifici areali di produzione. Infatti, poiché la loro “impronta olfattiva” non è dominata da una o due molecole odorose, ma è il risultato di un preciso equilibrio tra diverse sostanze volatili del vino, cambiando il suolo o il microclima, questo delicato equilibrio olfattivo può subire dei mutamenti che determinano piccole variazioni dell’odore complessivo percepito nei vini. Nel caso dei vitigni con identità varietale molto forte, come i cosiddetti “vitigni internazionali” l’incidenza del territorio e quindi la riconoscibilità geografica può essere, in un certo senso, depotenziata: basti pensare alla oramai vecchia diatriba sul fatto che alcuni Pinot Noir dell’Oregon, in diverse degustazioni alla cieca, sono stati spesso scambiati per prestigiose “appelation” della Borgogna. Dunque, poiché il concetto di territorialità è uno dei punti di forza centrali del vino di qualità, è interessante riflettere sul fatto che un vino prodotto con uve non dotate di evidenti caratteri odorosi varietali può, meglio dei vini con forte dominanza varietale, esprimere un’identità sensoriale territoriale. Tuttavia, è di nuovo necessario porre l’accento che in mancanza di una dominanza sensoriale forte, ossia in assenza di odori “chiave”, come per esempio quelli di confettura di mela cotogna del Gewurztraminer, dovuta ad alcuni particolari terpeni, bisogna evitare assolutamente la comparsa di difetti d’odore perché essi non esprimono un territorio”.
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