Ok, va bene. Abbiamo capito. L’Etna è ormai saldamente l’areale più intrigante del caleidoscopio enoico della Sicilia. Ci sono ancora dei punti interrogativi, ma in generale, possiamo dire che questa affermazione è al 90% vera. Tuttavia, pare un vero e proprio non-sense, a fronte di una domanda decisamente crescente in termini di terra vitabile, l’abbandono dei vigneti è ancora una realtà nei 20 comuni dove è possibile produrre l’Etna Doc. Ci sono delle criticità che ancora non possono essere eluse e che ancora troppo spesso inducono a questo passo: età avanzata dei vecchi vignaioli; mancato ricambio generazionale; dimensione ridotta degli appezzamenti, che non possono garantire un flusso di denaro remunerativo per chi li lavora; penuria di manodopera specializzata (problema che non riguarda soltanto questo areale ma molta parte dell’Italia del vino). Senza dimenticare le difficoltà di vario genere nell’allevare la vite in una zona di produzione bellissima e suggestiva, ma dalle forti pendenze e, quando va bene, caratterizzata da vigneti terrazzati: si direbbe addirittura, in alcuni casi, un luogo da viticoltura eroica, con un ulteriore incremento dei costi di produzione. In più, spesso si finisce per dimenticarlo, la spada di Damocle delle eruzioni del vulcano, che sono sempre dietro l’angolo. Insomma, un quadro ancora fragile in un contesto di estremo fascino, che non permettere di abbassare la guardia. Anche perché stiamo parlando di un ecosistema estremamente delicato, sempre in divenire e in cui gli equilibri, che ne garantiscono la conservazione, sono una conquista da compiere volta per volta, anche in funzione di una produzione vitienologica al top.
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