Con l’estate ormai inoltrata diventa sempre più frequente il consumo di pesce: un po’ perché è un cibo fresco, un po’ perché in vacanza dai centri urbani si tende a spostarsi verso le località di mare, dove l’offerta è più ampia, sia nella vendita al dettaglio che nei ristoranti. Il pesce che finisce nei piatti principalmente arriva dall’attività di pesca che nel 2022 ha superato l’acquacoltura in termini di produzione, come rivela un report Eurostat, ma l’Italia vanta anche un settore degli allevamenti all’avanguardia. Nel 2023, secondo l’ultimo report di Confagricoltura e Api, è di 400 milioni di euro il fatturato (solo pesci, non molluschi) della piscicoltura italiana, e, in particolare, in Italia sono presenti 800 siti produttivi concentrati per il 60% al Nord, il 15% al Centro e il 25% al Sud. Le specie ittiche sono 25, allevate in ambienti diversi: acqua dolce, lagune, mare. Il pesce più allevato è la trota: oltre 30.000 tonnellate e più di 280 milioni di uova embrionate. Seguono orata e spigola, con 17.000 tonnellate. Il Belpaese produce 160 milioni di avannotti di specie ittiche marine pregiate.
Tuttavia con quest’ultima tecnica sola, si fa fatica a soddisfare la richiesta dei consumatori, soprattutto nei mesi più caldi, tanto che gran parte del pesce allevato arriva dall’estero: “pur essendo il nostro Paese il primo consumatore di spigole e orate al mondo siamo in grado di esaudire appena il 20% della richiesta con la produzione degli allevamenti italiani. Il restante 80% lo importiamo”, racconta Pier Antonio Salvador, presidente Api, l’Associazione dei Piscicoltori di Confagricoltura che rappresenta il 90% delle aziende di acquacoltura italiane. Da qui la necessità, secondo l’associazione, di “far conoscere al consumatore l’origine del prodotto, non solo al supermercato, dove è già obbligatorio, ma anche al ristorante, dove non abbiamo informazioni sul pesce che scegliamo, né conseguentemente, garanzie di tracciabilità”.
L’Api infatti si sta battendo, anche a livello europeo, affinché l’origine del prodotto sia obbligatoria non solo nella Gdo: questo, secondo i piscicoltori, valorizzerebbe l’acquacoltura italiana, che ha i più elevati standard di sicurezza alimentare e salubrità, grazie al costante lavoro delle imprese del comparto in termini di innovazione e certificazione della sostenibilità.
Sul fronte delle caratteristiche organolettiche, i pesci allevati in Italia - scrive l’Api - sono ricchi di Omega3, di vitamina D e sono molto digeribili: un bambino è in grado di assimilarli già dall’ottavo mese. Sono poveri di colesterolo e forniscono appena un centinaio di calorie per ogni etto di prodotto, diventando a tutti gli effetti un alimento dietetico, ideale anche per sportivi e anziani. “Anche sul fronte dell’alimentazione negli allevamenti c’è stata una grande evoluzione - aggiunge Andrea Fabris, direttore Api - che ha ulteriormente migliorato la qualità del prodotto e favorito al contempo la salvaguardia dell’ambiente marino”.
Per Salvador, quindi, “l’acquacoltura italiana potrà essere ancora più sostenibile (non solo dal punto di vista ambientale, ma anche sociale ed economico) e competitiva se ci sarà un forte impulso al suo sviluppo, fornendo a questa attività agricola più spazio e garantendo una maggiore semplificazione burocratica. Attualmente, per quanto riguarda la maricoltura, a fronte di 8.000 km di coste, sono attive solamente 21 concessioni off-shore, mentre altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo ne hanno centinaia. L’Italia potrebbe insomma supplire alla domanda crescente di consumo del pesce, favorendo la creazione di nuovi posti di lavoro nelle aree rurali e costiere”.
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