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COME CAMBIANO LE ABITUDINI DEGLI ITALIANI A TAVOLA? CE LO RACCONTA NICOLA DANTE BASILE, GIORNALISTA DE “IL SOLE 24ORE”, NEL SUO LIBRO “NEW MENU ITALIA”, CHE ANALIZZA L’EVOLUZIONE DEL GUSTO NEL BELPAESE

Un’analisi accurata e documentata sui fattori che negli ultimi 20 anni hanno cambiato le abitudini a tavola degli italiani: la fa Nicola Dante Basile, giornalista de “Il Sole 24Ore”, nel suo libro “New Menu Italia” (Baldini Castoldi Dalai Editore). L’interessante fotografia del mercato italiano del mangiare & bere - quello domestico vale 141 milioni di euro, a cui vanno aggiunti altri 67,7 milioni per mangiare fuori casa - mostra cambiamenti epocali dei costumi alimentari del Belpaese. Ad incidere sono in primo luogo i cambiamenti demografici: l’innalzamento dell’età media della popolazione, il crescente numero delle famiglie con un solo componente (i single), l’affermarsi di nuovi stili di vita e il prorompere del fenomeno multietnico, con crescenti flussi migratori in entrata. Tutti fattori che hanno concorso a determinare profonde modifiche nella composizione degli acquisti di alimenti e bevande.

In netto aumento in Italia la domanda di consumi fuori casa: basti pensare che se negli anni Settanta la ripartizione della spesa delle famiglie tra consumo domestico ed extra domestico era rispettivamente dell’85,1% e del 14,9%, nel 1985 la stessa ripartizione era del 79,2% e del 20,8%, mentre oggi la spesa domestica si attesta sul 67,6%, a fronte di un consumo fuori casa che sale al 32,6%. Oggi gli italiani destinano quindi un terzo della spesa alimentare complessiva per mangiare e bere fuori dalle mura di casa. Sulla base di questi risultati, si stima che tra vent’anni i due piatti della bilancia “casa-fuori casa” saranno praticamente in equilibrio.

Nella composizione del paniere della spesa degli italiani, negli ultimi 20 anni si nota una netta riduzione dei consumi di carne, mentre si assiste ad un aumento di frutta e ortaggi. Segno positivo anche per pane e cerali, nonché per il pesce, il latte e le uova. Pochi i cambiamenti per quanto riguarda i cosiddetti “coloniali” (zucchero, caffè e drogheria varia) e le bevande. E per quest’ultima voce occorre però fare una distinzione tra alcolici e non alcolici. Se i superalcolici sono in netta caduta (-68% in 20 anni), risultano in crescita le bevande non alcoliche, mentre il vino registra una domanda decisamente calante: si passa dai 35,1 milioni di ettolitri - 62 litri procapite - alla fine degli anni Ottanta, agli attuali 28 milioni, pari a 47 litri a testa. Questo significa una caduta superiore al 20% per l’intero comparto, all’interno del quale però i vini comuni perdono un buon 30% e quelli con denominazione d’origine conquistano un segno positivo del 20%. Anche la birra è stata protagonista di una forte rivalutazione da parte degli italiani, come del resto l’acqua minerale, con una domanda passata da 6,1 miliardi di litri nel 1990 a 13 miliardi nel 2008.

La spesa media mensile delle famiglie italiane per acquistare cibo e bevande è passata dai 252 euro del 1986 ai 467 euro del 2006. Questo importo, se riportato ai prezzi del 1986, scende a 230 euro. Quindi in poco più di vent’anni, in Italia, c’è stata una flessione della spesa alimentare dell’8,7%, a fronte di una crescita nominale (a prezzi correnti), dell’85,3%. Un divario tutto riconducibile alla dinamica inflazionistica.

Tra le new entry del paniere della spesa made in Italy vanno sicuramente inseriti i cibi etnici, fortemente collegati al fenomeno immigratori dall’Est europeo, dall’Estremo Oriente, dall’Africa e dal Sudamerica. Sebbene non esistano statistiche storiche ufficiali, la domanda di queste nuove categorie di beni ha registrato tassi di crescita a due cifre, tra il 25 e il 30%. L’introduzione di questi nuovi cibi, e talvolta di stili alimentari completamente avulsi dagli schemi tradizionali, comporta mutamenti di rotta nelle dinamiche di acquisto e nei trend storicamente consolidati. Un esempio tra tutti, la ripresa in Italia dei consumi di riso, dopo anni di forte stagnazione, riconducibile (anche) a una robusta richiesta da parte dei cittadini extracomunitari, che sono arrivati ad un totale di circa 4 milioni alla fine del 2008.

Da segnalare inoltre il fenomeno dei single, un “esercito” di 6 milioni di italiani (negli anni Settanta erano 2 milioni), pari al 10% della popolazione. Sono loro i più interessati a prodotti salutistici e ad alto contenuto di servizio, e non a caso tra le referenze con le migliori performance di crescita nella Gdo negli ultimi cinque anni ci sono specialità surgelate, verdure confezionate e pronte all’uso, merendine fresche, dessert, gelati, piatti pronti freschi, yogurt e prodotti dietetici. Ma anche sughi e condimenti pronti, pasta ripiena fresca, salumi in busta e alimenti esotici.

Ma il libro di Nicola Dante Basile racconta anche la storia e l’esperienza di 70 grandi imprese dell’agroalimentare italiano, con marchi ricchi da storia accanto ad altri meno famosi: da Allegrini a Amadori, da Berlucchi a Biondi Santi (non la storica “Il Greppo”, ma la “commerciale”, che distribuisce soltanto i vini della storica tenuta di Montalcino, ndr) , da Colussi a De Cecco, da Donnafugata a Ferrari, da Illy a Lavazza, da Granarolo a Monini, da Plasmon a Perugina, da Giovanni Rana a Fiorucci.

Il sistema alimentare italiano presenta una struttura molto frammentata, diversamente da quanto accade in altri Paesi, con 80.000 aziende produttive. Ma questa apparente debolezza non impedisce al settore di investire in ricerca e sviluppo dai 5 ai 6 miliardi di euro all’anno, su un fatturato complessivo di 110 miliardi di euro. In linea con quanto fanno Paesi come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna.

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