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CORRIERE DELLA SERA - CORRIERECONOMIA

Export. Il diavolo nella bottiglia ... Frontiere chiuse. Perché la produzione italiana stenta a diventare protagonista nella globalizzazione. La conquista dei mercati esteri deve fare i conti con dazi e accise in vigore in molti Paesi. E così il costo al consumatore finale può crescere anche di dieci volte...
In aumento i volumi, ma in discesa i valori. Da settembre 2008 rispetto al terzo trimestre 2009 i produttori hanno dovuto abbassare i prezzi. Secondo i dati di Assoenologi, c’è stato un calo di oltre il 13%. Colpa della recessione sì, ma non solo. A gravare sul prezzo all’estero c’è anche un altro fattore: le tasse. In base a un sondaggio dell’agenzia specializzata “Winenews”, la bottiglia che esce da una cantina italiana si trova sullo scaffale straniero a prezzi anche 10 volte quello di partenza. Se non si abbassa il prezzo di partenza, i consumatori stranieri non riescono a percepire il vero rapporto qualità/prezzo dei nostri vini.

“Balzelli, tasse e accise si accompagnano alla concorrenza dei produttori del nuovo mondo e a una crisi che non è stata ancora del tutto digerita” dice Alessandro Regoli, di “Winenews”. Da 8 euro franco cantina a 45 euro allo scaffale di Rio de Janeiro: ecco di quanto sale una bottiglia che prende la via del Brasile, mercato che è diventato sempre più importante. Un aumento enorme, causato da una tassa sul valore del 27% per i vini fermi, a una tassa per l’importazione e dalle accise. Stessa musica in Cina, dove una bottiglia che parte da Roma a 5 euro arriva a Pechino a 25-30 euro, causa tasse di importazione del 40-60% sul valore dichiarato della fattura e i ricarichi di distributori e commercianti. Peggio ancora va in India: 50% di dazio doganale, il 200% di accise e i tantissimi costi delle filiera: bere un vino rosso italiano da 5 euro a Delhi ne costa 55.

“Ogni mercato ha le sue regole - dice Filippo Cesarini Sforza, Wine business unit director della Ilva di Saranno, che nel 2001 ha acquisito i marchi Corvo, Florio e Duca di Salaparuta e che esporta oltre 13 milioni di bottiglie l’anno -. Negli Usa per esempio, c’è una federal tax e un’ulteriore tassa di ingresso imposta dai singoli Stati. Alla fine si arriva a costi che incidono per l’80% sul prodotto”.
Ecco perché, malgrado le difficoltà, le cantine italiane continuano ad esplorare mercati esotici con particolare attenzione a quelli con maggiori potenzialità di crescita.

“Cina, India, Brasile. I cosiddetti nuovi mercati sono tassati, ma anche difficili: in Cina stanno già piantando e il vino se lo produrranno da soli - dice Anselmo Chiarli, dell’omonima cantina emiliana che esporta oltre 10 milioni di bottiglie l’anno e che è presente all’estero sin da prima della seconda guerra mondiale -. Poi i mercati emergenti sono molto soggetti alle mode. Per un export solido noi contiamo ancora sulla Vecchia Europa. I mercati tradizionali possono calare, ma poi si riprendono”.

Ma se all’interno dell’Unione europea si pensa di andare lisci, in realtà non è così: i vini sono caricati da accise che alcuni Stati membri impongono sugli alcolici.

“L’accisa - spiegano alla Coldiretti - si paga nel Paese di destinazione/consumo e pertanto incide sul prezzo di vendita. Se in alcuni stati come Italia e Spagna l’accisa è pari a zero, altri ci vanno giù pesante”. È il caso del Regno Unito, dove sono applicati 235 euro per ettolitro (133 bottiglie) di vino fermo e 300 euro sulle bollicine. Ancora più cara la tassazione in Irlanda. Sono soltanto gli spumanti e non i vini fermi a essere tassati in Germania, Polonia, Romania e Repubblica Ceca.
“Tra le accise in Germania e i duty nel Regno Unito - dice Fausto Peratoner, presidente di Trento Doc, consorzio che riunisce 29 produttori e che esporta oltre 1,2 milioni di bottiglie - i vini trentini che partono a 4-5 euro arrivano al consumatore inglese o tedesco a un prezzo 3-4 volte superiore. I nostri produttori hanno fatto sforzi enormi per aumentare il rapporto qualità prezzo, ma a causa delle tasse lo sforzo non può essere capito da chi acquista il loro vino”.

Sul costo finale di una bottiglia pesano anche i vari passaggi della filiera. In Germania le accise sulle bollicine sono alte, ma la bottiglia non subisce altri ricarichi. “Si passa da un solo importatore distributore e poi la bottiglia è sullo scaffale. Negli Usa, invece - lamenta Cesarini Sforza - la filiera è molto lunga. Ognuno ci mette il proprio ricarico e il vino arriva al consumatore finale a un prezzo molto elevato”.

Ma, tasse statali a parte, è la distribuzione il tallone d’Achille dell’export.

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