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COLLISIONI E VINO

Dal sistema delle denominazioni all’emozione nel bicchiere: il vino italiano secondo Ian D’Agata

Collisioni, il Festival Agrirock di scena a Barolo, entra nel vivo: al centro, l’incontro tra cultura, musica e tesori del wine & food italiano

Collisioni, il Festival Agrirock entrato oggi nel vivo, nella cornice di Barolo, ha una caratteristica unica, la capacità di mettere in comunicazione vino, cibo, cultura, arte e musica, riuscendo a far comunicare e dialogare Bacco con mondi apparentemente lontani, e che ha nel Progetto Vino, capace di far incontrare giornalisti e degustatori da tutto il mondo, il suo fulcro. Ma quali sono, i vini ed i territori del momento, e quali quelli pronti ad emergere? Ne abbiamo parlato con Ian D’Agata, a capo del Progetto Vino e del Progetto Indigena. “Il vino italiano ha molto da dire, ci sono tante zone che hanno tanto da comunicare, come la Valle d’Aosta, che viene da una vendemmia difficilissima come la 2017, una produzione scarsissima eppure qualitativamente ottima. È emozionante vedere come uomini e donne riescono a tramutare una calamità naturale in qualcosa di magico. E la magia si ripete in pianura, ad esempio con i rosati di Puglia, da Primitivo di Manduria, Malvasia Nera e Nero di Troia, che nonostante l’annata caldissima hanno regalato vini eccezionali”.
Se però si restringe l’analisi alle etichette memorabili, quelle capaci di rimanere scolpite nella mente e nel palato, il “gioco” si fa difficile, perché “l’Italia ha un patrimonio di oltre 500 varietà autoctone, impossibile non lasciarsi emozionare. In Piemonte - ricorda Ian D’Agata - ho incontrato alcuni Barolo e Barbaresco in cui la percentuale di Nebbiolo Rosé, varietà diversa ma molto simile al Nebbiolo, sta aumentando, facendo riscoprire una varietà quasi estinta: un nome su tutti il Barolo Bussia di Sylla Sabaste, che a Bussia, appunto, ha il 70% di Barolo Rosé. Un altro vino emozionante è il Soave Staforte di Pra, che esprime il meglio della Garganega. Ma sono anche un fan del Trebbiano d’Abruzzo Fonte Canale della Tiberio, vecchie vigne che parlano d’Abruzzo in maniera unica. E poi, la Malvasia di Lipari, con la vite che spunta a Panarea come a Vulcano, tra cui spicca quello di Punta dell’Ufola di Paola Lantieri, vignaiola combattiva. Potrei dirne tanti, dall’Amarone al Chianti Classico, dal Brunello di Montalcino al Barbaresco, come il Nervo di Cantina Rizzi”.
Ma qual è la percezione del vino italiano nel mondo? E a che punto siamo in quella crescita dei prezzi che, ancora oggi, è ciò che ci divide dalla Francia? “L’Italia è vista come un Paese che produce vini buoni a prezzi accessibili, e questo è un valore importante. Ora - spiega il direttore del Progetto Vino di Collisioni - dobbiamo migliorare la base qualitativa di tutte le denominazioni, perché spesso capita che ci siano picchi egregi e basi meno buone, che però inficiano quanto di buono fanno gli altri. Dobbiamo lavorare insieme per avere maggiori ambizioni, buona volontà ed alzare l’asticella: i nostri Docg devono essere buoni, non possiamo chiudere un occhio sulle imperfezioni, si rischia di rovinare il nome di un’intera denominazione, permettendo ai nostri competitor di toglierci fette di mercato. Quando in etichetta c’è scritto “Chianti”, o “Chianti Classico”, quel vino deve essere buono, e questo vale per tutti i grandi nomi del made in Italy del vino, che dobbiamo difendere garantendo alta qualità ai mercati”.
Del resto, il Belpaese enoico vive in equilibrio tra vignaioli artigiani che fanno altissima qualità, grandi produttori e cooperative, e “nel Paese dei Comuni e delle Signorie è normale che sia così. Ma bisogna fare attenzione, non è necessariamente vero che “piccolo è per forza bello”. La difficoltà maggiore, nel vino, è fare 100.000 bottiglie di un grande vino, ma c’è posto per tutti, ricordando che i grandi marchi che dominano nel mondo non sono certo famosi per la qualità”. A proposito di mercati, all’estero la varietà conta ancora più della denominazione di stampo europeo, che comunque sta facendo passi avanti, specie in Usa, “ma per avere successo è importante che abbiano una logica ed un vero attaccamento ad un luogo. Quelle troppo grandi non vanno bene, perché da una stessa varietà vengono fuori tanti vini diversi, a seconda dei terroir. E poi - continua Ian D’Agata - se si parla di denominazione, il vino deve ricordare il luogo da cui proviene, inutile fare un vino siciliano che ricorda un vino veneto e così via. E in molti casi forse sarebbe utile ridurre al massimo il numero di vitigni ammessi, altrimenti non ha molto senso parlare di denominazione. La Borgogna è Pinot Nero e Chardonnay, il Rodano è Syrah e Viognier: facciamo così anche noi e vinciamo”.
Ovviamente, molto passa per l’affermazione dei vitigni autoctoni che, ricorda ancora Ian D’Agata, “un patrimonio che non ha nessuno, ma ci vuole uno sforzo di marketing diverso. Dobbiamo far valere le identità dei territori così come quelle dei singoli autoctoni, e per farlo occorre spiegare le diversità: ognuno di questi vitigni dà vini con caratteristiche uniche e diverse. Oggi posso bere un grandissimo Cagnulari Sardo come un Grechetto di Orvieto o un Canaiolo di Toscana, ognuno da zone diverse. Ricordiamoci sempre che il 90% dei vini francesi è prodotto da 20 uve, il 90% dei vini californiani da appena 10 varietà, l’Italia ha 500 vitigni diversi ...”.

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