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E SE LA POESIA FOSSE LA VERA FORMA LETTERARIA DEL VINO? EXCURSUS DAI VERSI CHE DA EPOPEA DI GILGAMESH A ODE AL VINO DI NERUDA SCANDISCONO IL CONNUBIO SECOLARE. IL VINO HA UN SIGNIFICATO CULTURALE CHE DA MILLENNI TROVA IN POESIA LA SUA ESPRESSIONE

Italia
Ecco la copertina del libro (autore Giulio Caporali) che in Italia realizza un excursus su vino e poesia

Difficile non rimanere sedotti dalla carica storica, culturale ed evocativa che il vino riesce a sprigionare al di là della sua essenza edonistica. Certo, questa sfumatura rischia sempre più spesso di essere ignorata o, peggio, di essere negata, nel caos della mera sfera utilitaristico-economica. Una sorte che, con un’analogia forse non del tutto sorprendente, colpisce inesorabilmente anche il genere letterario della poesia, sempre più dimenticato per la sua inadeguatezza ai tempi. Oggi di vino si parla naturalmente in altri termini eppure la figura del poeta di qualunque epoca si associa con candida naturalezza alla sfera enoica: un bicchiere di vino per conciliare l’ispirazione, un brindisi per propiziare la riuscita delle rime o festeggiarne il successo fino ad arrivare a scene di veri e propri deliri bacchici propedeutici allo sprigionamento del genio compositivo.
In effetti, fin dai propri albori, la poesia si è trovata a confrontarsi da subito con il vino, a partire dall’“Epopea di Gilgamesh”, poema scritto nel XII sec a.C., durante il regno di Nabucodonosor I. Il vino ricopre qui essenzialmente un ruolo “liturgico” e fa la sua comparsa sempre durante momenti in cui si celebrano veri e propri riti o cerimonie importanti. Ancora nei versi, questa volta di “Iliade” e “Odissea”, il vino resta un “personaggio” fondamentale, che interpreta un ruolo liturgico. Ma è a cavallo tra VII e VI secolo a.C che il vino trova la sua sede d’elezione in Grecia, nella pratica del Simposio, elitaria riunione per personaggi d’alto rango, dedicata alle libagioni e alle discussioni dotte, dove il cibo era bandito affinché la bevanda potesse inebriare i sensi senza ostacolo alcuno e favorire così la libera conversazione. Un vero e proprio rituale, che agli occhi dei bevitori del terzo millennio appare come una profonda “ubriacatura” organizzata e autorizzata, dove i poeti conosciuti come lirici greci hanno fatto fluire i pensieri e hanno composto, con l’entusiasmo e il furore dionisiaco che ancora trapela leggendoli, i loro famosi versi. Alceo, Anacreonte, Archiloco ci hanno regalato una lunga serie di componimenti in cui il vino diventa rifugio per le pene d’amore, ristoro per le membra affaticate, occasione per festeggiare un successo. Nell’antica Roma, il vino non è più considerato soltanto uno strumento atto a stimolare il cervello e la lingua, come avveniva nell’ambito del Simposio greco per rendere libera e disinvolta la conversazione: nell’Urbe si mangia e si beve senza secondi fini. Virgilio, Ovidio, Petronio, Orazio, Marziale: tutti hanno celebrato con i loro versi il nettare di Bacco; e se il padre del pio Enea e il genio delle Metamorfosi vi si sono dedicati più per dovere che per pura passione, Orazio può a ragione essere incoronato il re della poesia enoica.
Nel Medioevo, poeti e vino trovarono una sorta di rifugio nei monasteri e nei conventi. E proprio alcuni chierici composero dei canti in una specie di latino misto a vocaboli del dialetto. Questi canti, poesie in musica in realtà, veri e propri poemi tabernari, sono i “Carmina Burana” dal nome dell’Abbazia dove è stato rinvenuto il codice manoscritto che li conservava (Abbazia Bura Sancti Benedicti). I “Carmina Burana” inneggiano ai piaceri della vita e a prendere con leggerezza la quotidianità; ma dietro la loro superficie di giocosa goliardia si nasconde una profonda amarezza, in cui il vino rappresenta l’unica luce nel buio dell’esistenza di quei tempi. Dalla serenità del chiostro al tormento di un poeta “maledetto” anche per quei tempi: Cecco Angiolieri, brillante interprete in rima di vere e proprie dichiarazioni d’amore al vino. Nello stesso periodo, lontano però dalla vecchia Europa, assopita nel torpore religioso, fioriscono in Oriente veri e propri capolavori in rima concepiti per celebrare il vino. Abu Nuwàs e Omar Khayyàm, poeti islamica vissuti, tra VIII e IX secolo, riescono a trasmettere in modo vigoroso l’idea di come il vino sia un unico eccezionale strumento per conseguire una illuminata e illimitata libertà dello spirito. Ma nella religione islamica il vino non è vietato? Corano alla mano, però, di vino si accenna soltanto in 3 dei 14 capitoli che compongono l’opera e in termini ambigui, mai del tutto univoci nella sua condanna.
Chi meglio nel Rinascimento fiorentino può raccontare il trionfo della poesia enoica? La “Canzona di Bacco”, uno dei canti carnascialeschi di Lorenzo De’ Medici, detto il Magnifico, è tutto dedicato all’esaltazione del vino. Tale devozione per il vino, che lo trasforma in oggetto poetico, la si ritrova anche in Angelo Ambrogini, detto Il Poliziano, che chiude “La fabula di Orfeo” con il cosiddetto “Coro delle Baccanti”, in cui cerca di riprodurre in termini comico-grotteschi il modo di parlare di una persona ubriaca.
Di lì in poi, le poesie sul vino si sprecano, ma sono componimenti convenzionali, dove riecheggia la lezione dei Greci e dei Latini, eccezion fatta per il poeta del vino per antonomasia, Francesco Redi, autore del celeberrimo ditirambo “Bacco in Toscana”. Un inno al vino di oltre mille versi, prezioso documento sulla produzione di vino nella Toscana del XVII secolo e sulle conoscenze enologico-commerciali di quel tempo. Secolo di vacche magre per le poesie enoiche il XVIII: a parte il Parini, che dedica qualche verso al dolce nettare e al brindisi, perché quando non c’è più spazio per l’amore, oltre all’amicizia rimane soprattutto il vino a dare un senso alla vita.
Perché arrivi un vero e proprio “novello Alceo” bisogna aspettare la prima metà del 1800, quando nasce Giosuè Carducci, la cui produzione letteraria pullula di poesie in cui il vino è visto come elemento fondamentale e metafora del paesaggio toscano, come “vita” della gente di questa regione, che riempie di sé tutto l’ambiente e si trasforma nell’atmosfera stessa del componimento. A questo vero e proprio genere che potremmo definire dell’“eno-poesia”, dà un contributo senz’altro importante la poesia dialettale dedicata al vino dal milanese Carlo Porta, dal romano Giuseppe Gioacchino Belli, passando ancora per il romanesco di Trilussa, l’emiliano di Lorenzo Stecchetti (al secolo Olindo Guerrini) e il napoletano di Salvatore Di Giacomo e Luca Postiglione.
Siamo giunti alla fine di questo breve viaggio, che si conclude con la straordinaria “Ode al vino” del Premio Nobel per la Letteratura Pablo Neruda. Dopo l’“Ode all’anfora di Orazio”, questo è l’unico componimento totalmente in lode ed esaltazione del vino, tratteggiato come elemento unificante e magico, ebbrezza di amicizia e splendore terrestre della vita e, soprattutto, come l’elisir che può introdurre l’uomo nel magico mondo dell’amore.
Fonte: I poeti del vino (Protagon Editori; info: info@valdipiatta.it), opera letteraria unica nel suo genere che colma un vuoto editoriale, compiuta dell’ingegner Giulio Caporali.

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