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VIAGGIO

Georgia, culla della viticoltura che guarda al presente pescando nella ricchezza del proprio passato

Alla scoperta delle varietà tradizionali e della vinificazione in anfora, a Kakheti, dove il vino georgiano vive il suo Rinascimento

“Ogni piatto georgiano è una poesia”, scriveva, due secoli fa, il drammaturgo russo Alexander Pushkin. Non è dato sapere cosa pensasse del vino, ma in Georgia, alle pendici del Caucaso, ultimo lembo d’Europa - se non geografica di sicuro culturale e politica - porta d’ingresso naturale all’Asia, la vite e la viticoltura hanno radici profondissime, ancora di più che nel bacino del Mediterraneo. Tanto da accompagnarne e segnarne 8.000 anni di storia: “Kartlis Deda”, ossia la Madre della Georgia, la statua simbolo della capitale del Paese, Tbilisi, tiene in una mano una spada, e nell’altra una coppa di vino. Non è un caso, e per quanto si susseguano studi archeologici che ciclicamente provano a ricollocare - geograficamente e temporalmente - la culla della prima domesticazione della vite, nessuno nutre dubbi sul fatto che le prime pratiche viticole precedano di 3.000 anni l’invenzione della scrittura, e di 5.000 l’inizio dell’Età del Ferro.
Crocevia di culture e denominazioni, nella sua lunghissima storia la Georgia (di cui l’11 giugno il “Merano WineFestival” celebra le eccellenze enoiche, come abbiamo raccontato qui) è stata dominata da Assiri, Greci, Romani, Persiani, Mongoli, Arabi e Turchi: quasi tutti, hanno un debito inestinguibile con la viticoltura georgiana, e molte delle varietà coltivate oggi in Europa e in Asia arrivano da qui. Persino la parola “vino” è, con ogni probabilità, di derivazione georgiana: “ghvino” o “gvino”, decisamente più di un’assonanza casuale. Una lunga storia, praticamente ininterrotta, con un protagonista tecnologico, capace negli ultimi anni di catalizzare l’attenzione internazionale: lo “qvevri”, la tipica anfora di terracotta in cui, tradizionalmente, ogni famiglia georgiana metteva la propria piccola produzione di vino, rigorosamente interrata. Una sorta di “garage wine” ante litteram, che ricopre un enorme valore sociale: nelle feste tradizionali georgiane, le “supra”, eredità della tradizione monastica della Chiesa Ortodossa Orientale, si apre lo qvevri e il vino, da condividere insieme al cibo, diventa veicolo per discutere dei grandi temi della vita, introdotti dal “tamada”, una sorta di cerimoniere.
L’anfora, del resto, è stata usata per secoli anche dai Romani, ma il suo utilizzo si è perso nel tempo. In Georgia no: vino, cereali, formaggio e quant’altro hanno sempre trovato la loro forma di conservazione nello qvevri. Che in epoca più recente, durante il regime Sovietico, ha assurto ad un ruolo persino più altro, politico. Per decenni, infatti, la viticoltura, ovviamente centralizzata, rispondeva ad una sola esigenza: ottimizzare i processi produttivi per garantire le maggiori quantità possibili, senza curarsi della qualità. In quel periodo, migliaia di famiglie hanno continuato a produrre il loro vino, conservandolo negli qvevri, ovviamente interrati, e coperti per sfuggire ai controlli. Per il vino georgiano è stato un periodo di enorme crescita tecnologica, ma di certo non qualitativa, e la lunga transizione, in questo senso, sta vivendo il suo momento più interessante proprio in questi ultimi anni.
Ne è un esempio lampante la svolta di GWS, uno dei principali produttori del Paese, che, negli anni Settanta del Novecento, in epoca Sovietica, si chiamava Achinebuli, lavorava 10.000 tonnellate di uva ogni anno e produceva più di 12 milioni di bottiglie. Oggi, come racconta a WineNews il winemaker dell’azienda, Manuchar Meskhidze (nei prossimi giorni il servizio video dalla Georgia, ndr), “superiamo di poco i 4 milioni di bottiglie”, per buona parte da uve prodotte nei 400 ettari vitati di proprietà, quasi tutti a Kakheti, la regione a più alta vocazione enoica della Georgia, nell’estremo oriente del Paese, tra Russia e Azerbaigian. “Nel 1993 l’azienda viene privatizzata, diventando il primo esportatore di vino georgiano imbottigliato, per poi essere acquisita, nel 1999, dal gruppo Pernod Ricard, con cui arriva un fondamentale step di crescita tecnologica e qualitativa”.
Un balzo sempre nel solco della tradizione, perché il filo che lega la viticoltura di oggi con quella di ieri non si è mai spezzato, e lo testimoniano le varietà autoctone che ancora la fanno da padrone: quelle a bacca rossa, come Saperavi e Otskhanuri Sapere, e quelle a bacca bianca, come Kisi, Khikhvi, Tsolikouri e Tsitska. “La Georgia vanta 550 varietà autoctone, e tante altre se ne stanno scoprendo grazie alla ricerca. È la base su cui stiamo costruendo il nostro modello, che guarda al Nuovo Mondo, sia in cantina, con una predilezione per la botte piccola piuttosto che per lo qvevri, che in vigna, con i nuovi impianti pensati per la raccolta meccanizzata”, dice ancora il winemaker di GWS.
Una filosofia produttiva che trova il suo negativo nel vicino Chateau Mere, la cantina di George Piradashvili, imprenditore vulcanico che fino a 25 anni fa importava nel Caucaso, dal Piemonte, i macchinari per la viticoltura di Gai, e oggi firma alcune delle etichette più prestigiose della Georgia. Senza possedere neanche un ettaro vitato, ma imponendo ai suoi conferitori rigidi protocolli di gestione del vigneto, seguendo il modello delle cooperative del Nord Est italiano, “capaci di produrre vini di grande qualità”, dice a WineNews George Piradashvili. Qui, neanche una goccia di vino passa per il legno, e delle 600.000 bottiglie prodotte “la stragrande maggioranza fa solo acciaio, ma le etichette migliori finiscono in anfora. Per noi georgiani è una religione, e non serve solo per il vino ma, nel passato, anche per conservare formaggio e grano, e in epoca Sovietica ha rappresentato il modo perfetto per nascondere le nostre piccole produzioni, che erano anche un piccolo business familiare, al Governo. Oggi, è il materiale perfetto per le lunghe macerazioni, specie dei nostri vini bianchi, ed un modo perfetto per produrre vini unici, dagli aromi peculiari, capaci di trovare un loro posto sui mercati internazionali”, conclude George Piradashvili.
Tanto, tantissimo altro ci sarebbe da scrivere e raccontare, e WineNews continuerà a farlo nei prossimi giorni, nella consapevolezza che non bastano una manciata di articoli e qualche migliaio di battute a raccontare la ricchezza enoica, culturale, gastronomica e sociale di un Paese che, pur contando meno di 4 milioni di abitanti, ha scritto pagine e pagine di storia del vino, e ne è pienamente consapevole: ben lontana dalle prime economie al mondo - per Pil e per reddito pro capite - è un crocevia fondamentale del turismo enoico internazionale, ed a tavola, non si può che finire per concordare con Alexander Pushkin: dal Khachapuri alle Pkhari, dal Badrijani alle Abkhazura ... “ogni piatto Georgiano è una poesia”.

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