Perché l’etnobotanica dovrebbe interessarci? È la domanda che dà il titolo al food talk di “Terra Madre Salone del Gusto” by Slow Food con Andrea Pieroni, Professore Ordinario di Botanica Ambientale e Applicata e Rettore dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Pur non rendendocene conto, l’etnobotanica ha una parte importante nella nostra vita, perché è la scienza che studia le relazioni complesse fra gli esseri umani e le piante. E queste sono relazioni antiche, che si sono instaurate ancor prima che la scienza fosse codificata. L’etnobotanica esiste fin dall’antichità, perché fin dall’antichità l’essere umano costruisce relazioni con il mondo vegetale, in termini di specie ed ecosistemi. Per la gastronomia il tema è estremamente rilevante perché la maggior parte dei gusti che esistono al mondo nei piatti provengono da ingredienti vegetali e da specifici componenti di ingredienti vegetali che hanno un sapore e un odore, e si chiamano metaboliti secondari.
“L’etnobotanica - spiega il professor Pieroni - è la scienza che studia le relazioni complesse tra uomo e società, possiamo dire che risale a quando i primi esseri umani hanno abitato il pianeta, perché ogni essere umano ha costruito delle relazioni con il regno vegetale, sia in termini di specie che di ecosistema. Per la gastronomia è un aspetto estremamente rilevante, perché molti dei sapori che abbiamo nel mondo arrivano da ingredienti vegetali e derivano da specifici costituenti delle piante, sapori e profumi chiamati metaboliti secondari. L’etnobotanica quindi è la scienza che studia una storia antica, la storia delle interazioni tra essere umano e mondo vegetale. Ha molto a che fare con la conoscenza tradizionale, il core business dell’etnobotanica e anche di molte intuizioni che Slow Food ha sviluppato studiando la gastronomia. L’idea cioè che la conoscenza, che è stata trasmessa perlopiù oralmente, e rimasta per lungo tempo in ambito locale, nelle mani di attori non ufficiali della conoscenza, è cruciale per dare forma a pratiche di raccolta, coltivazione, trasformazione delle piante, produzione di prodotti artigianali e anche bellissimi piatti”.
Ci sono però differenze importanti tra “la conoscenza tradizionale e la conoscenza scientifica: non è solo conoscenza, ma è incorporata in pratiche, è fortemente connessa all’empirismo della vita quotidiana ed include anche credenze e linguaggio. La conoscenza tradizionale - riprende il docente di Botanica Ambientale e Applicata - non è solo tradizionale, non nel modo in cui la concepiamo oggi. Non è statica, ma è molto dinamica, ed è il risultato di una continua coevoluzione che le comunità locali e l’ambiente naturale hanno avuto nello scambio e nella promozione, per secoli, di relazioni e scambi. L’esempio più iconico di come la conoscenza tradizionale sia dinamica è probabilmente il piatto più iconico della cucina italiana: gli spaghetti al pomodoro. Gli spaghetti sicuramente non sono originariamente italiani, probabilmente. Come ci racconta Massimo Montanari, ci sono arrivati dagli Arabi e dal vicino Oriente, come conseguenza diretta dell’agricoltura nella mezzaluna fertile. E sicuramente, i pomodori arrivano dal Nuovo Mondo. E allora, l’italianità nel piatto non sta negli ingredienti, ma nel modo in cui queste due cose sono state messe insieme. L’italianità è nell’estetica, e questo dimostra che la conoscenza tradizionale è tradizionale nel modo in cui è trasmessa, ed è considerata emicamente parte del patrimonio culturale delle comunità locali, ma non è statica”.
Il dinamismo della conoscenza tradizionale, secondo il professor Pieroni, è anche “la miglior medicina e la miglior soluzione che possiamo avere anche per il futuro e di fronte ai grandi cambiamenti climatici che ci aspettano e che stiano già vivendo. Perché? Perché in questa dinamica della conoscenza tradizionale, c’è un’energia speciale, che può forgiare anche gli adattamenti necessari per rispondere al cambiamento globale. Ovviamente, non servono solo adattamenti, ma ci vogliono anche politiche serie, ma le comunità locali si stanno già adattando al cambiamenti climatico usando le la loro conoscenza tradizionale e attualizzandola. Ed è per questo che è così importante per promuovere la sostenibilità del sistema cibo del futuro, ma anche per la sovranità alimentare. Che è collegate in maniera stretta ai sistemi della conoscenza tradizionale perché le comunità locali hanno il sapere tradizionale nelle loro mani”.
In altre parole, “la conoscenza tradizionale è la strada attraverso la quale le comunità locali possono disegnare, praticare, produrre e beneficiare del loro sistema di produzione del cibo. E questo è il motivo per cui non possiamo sostenere la sovranità alimentare nel mondo ignorando la conoscenza tradizionale. L’etnobotanica - aggiunge il rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche - è qui per osservare in maniera specifica la conoscenza tradizionale delle piante ed il complesso sistema che circonda questo sistema, che non vuol dire solo identificare le piante, percepire le piante, dare un nome alle piante, usarle, trasformarle, ma anche saperne godere. La socialità collegata alla conoscenza tradizionale fa parte della conoscenza tradizionale, dentro c’è l’estetica come ci sono i sistemi sociali, assorbiti nella conoscenza tradizionale collegata alle piante. Questo vuol dire paesaggio, patrimonio bioculturale. Anche regole che normano l’uso dei beni comuni rientrano nella conoscenza tradizionale, ecco perché va studiata etnobotanica in tutto il mondo. Non solo per amore dei bravi scienziati, ma anche per migliorare le prossime coevoluzioni che le comunità locali dovranno avere con l’ambiente che le circonda, in alleanza che metta insieme scienziati, comunità locali, ecologisti, e spero anche esperti di cibo”.
In altre parole, dice ancora Andrea Pieroni, “la scienza articolata dall’etnobotanica, è molto in linea con ciò che la Commissione Ue ha elaborato come prossima sfida del decennio: la scienza dei cittadini. Questo significa che non è solo la scienza per il progresso della conoscenza, ma anche la scienza per il progresso delle comunità locali fatta insieme alle comunità, e con la partecipazione diretta delle comunità. E questo penso che sia estremamente rilevante, vorrei sperare di vedere in futuro molta più ricerca in campo etnobiologico e ricerca fatta insieme alla comunità. Una delle idee cruciali di Slow Food, emersa più di trent’anni fa non solo è viva, ma è anche lo scheletro delle prossime generazioni di scienziati. L’idea cioè che la scienza non sia un effetto, ma un processo, co creato da differenti attori. In questo senso, quando oggigiorno vediamo una vecchia signora, o una signora di mezza età, o un giovane raccoglitore di piante selvatiche, o un contadino che riscopre una specie locale, vediamo l’essenza di una co evoluzione continua e vediamo anche un valore che va ben oltre il valore scientifico, e ben oltre la biodiversità per come l’abbiamo intesa finora”.
In conclusione, aggiunge il rettore di Pollenzo, “oggi dobbiamo cambiare questo paradigma e passare dal difendere la biodiversità al difendere la diversità bioculturale, e in questo senso raccoglitori e contadini sono cruciali in questo sforzo. Spero sinceramente che l’etnobotanica e l’etnobiologia possano diventare il fulcro di tanti progetti che mettano la comunità al centro, ma che siano anche capaci di sfuggire a quell’atmosfera noiosa dell’accademia, generando ulteriori semi, come l’esperienza di Slow Food ha dimostrato molto bene negli anni scorsi”.
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