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LA RIFLESSIONE

Il vino italiano deve difendersi, ma deve riflettere anche sulla sua trasparenza

Tracciabilità, chiarezza in etichetta, utilizzo di coadiuvanti, filiera “integrale” o meno: tanti i temi su cui lavorare per il futuro
ETICHETTA, PRODUTTORI, REPORT, trasparenza, vino, Italia
Il vino italiano deve difendersi, ma deve riflettere anche sulla sua trasparenza

La difesa un po’ “corporativa” del settore del vino (qui il nostro articolo con le diverse posizioni), davanti ai toni accusatori, usati dal servizio di “Report” del 17 dicembre, su Rai3, già dal titolo “Piccoli Chimici” (qui il link al servizio), tanto per pratiche consentite dalla legge e di certo non nocive per il consumatore, che per pratiche illegali già più volte denunciate dagli addetti ai lavori (il problema dell’uva da tavola che veniva vinificata lo sollevava già il Cavalier Ezio Rivella oltre 40 anni fa e lo ha risottolineato il presidente Uiv - Unione Italiana Vini, Lamberto Frescobaldi, in questa estate, nella nostra intervista), e che via via quando scoperte vengono sanzionate (le notizie di cronaca in materia sono frequenti) che, per illeciti accertati, è comprensibile.
Ma è pur vero che, tra mille imprecisioni e illazioni non supportate da documentazioni che non vanno oltre le dichiarazioni di alcuni personaggi, il servizio di “Report”, a modo suo, ha toccato alcuni temi su cui il settore del vino, in virtù della sua importanza e del suo indiscutibile valore intrinseco, e, soprattutto, quando si parla di prodotti di alta qualità ed alto valore aggiunto, deve riflettere, perchè ormai, sulla trasparenza e sulla credibilità si gioca il presente ed il futuro di ogni settore, in tempi in cui basta un post su un social per cambiare le sorti. Per esempio, che le etichette del vino (così come di altri alcolici, in verità), manchino di trasparenza, che piaccia o meno, è un dato di fatto. Tant’è che, per i vini prodotti dall’8 dicembre 2023, è in vigore il nuovo regolamento dell’Unione Europea sull’etichettatura che, dopo un percorso normativo che ha visto l’industria protagonista propositiva, tra nuovi obblighi sul supporto fisico e digitale, consentirà ai consumatori di avere molte più informazioni di prima, come la dichiarazione nutrizionale e l’elenco degli ingredienti, che sono la vera novità dell’impianto normativo.
Altro tema cardine del servizio di “Report” è stato l’uso del “Mosto Concentrato Rettificato”, dipinto nei toni come una sorta di pozione magica in grado di sistemare le cose quando non sono a posto. Ma così non è, perchè, per dirla in maniera semplice, come la spiegano anche enologi di primo piano, il Mcr altro non serve che a sostenere un po’ il grado alcolico, ed a dare un po’ di dolcezza e “rotondità” a certi vini (cosa sempre più richiesta dai mercati, soprattutto in Nord America e Nord Europa). Niente di illecito o di dannoso, dunque. Ma viene da chiedersi se oggi, con tanti che, almeno a parole, cercano di lavorare per ridurre gradazioni alcoliche sempre più elevate (che al netto della retorica della “bevibilità”, incidono e come sul calo dei consumi) e soprattutto per una valorizzazione della qualità vera dei territori più importanti, abbia ancora senso che siano previsti dai disciplinari dei Consorzi di tutela. O meglio, che il loro utilizzo “straordinario”, che come ben spiegato anche nel servizio di “Report” deve essere richiesto e autorizzato annata per annata a seconda dell’andamento climatico e delle sue conseguenze sulle uve, sia diventato praticamente la normalità.
Soprattutto se si parla di territori di altissimo pregio, che dovrebbero esprimere, idealmente, una qualità altissima delle uve e quindi dei vini, anche in virtù dei prezzi a bottiglia che spuntano. Pensiero che, tra l’altro, già risiede tra le righe dei disciplinari, per i vini con la menzione Vigna, ovvero il cru, il meglio della produzione aziendale, o quanto meno il vino più legato all’espressione di quel singolo vigneto del territorio (che, come tale, viene selezionato perchè produce uve e vini migliori di altri) il Mosto Concentrato Rettificato non sia consentito. Ed il discorso, per vini che vengono pagati molto anche per la loro narrazione di prodotti che “raccontano il territorio”, che ne sono una delle “espressioni più tipiche”, e così via, può valere per molti altri coadiuvanti perfettamente leciti ed innocui, bene ribadirlo, per la salute dei consumatori.
Ancora, in tema di trasparenza, è forse il caso, ed è un tema annoso nel mondo del vino, di arrivare, finalmente, ad una dizione chiara, in etichetta, che spieghi in maniera semplice se un produttore di vino imbottiglia vini prodotti da uve di propria coltivazione, o se per imbottigliare i vini sotto il proprio marchio compra uve o vini di altri produttori. E non c’è niente di male nel farlo, ben inteso, a patto che sia chiaro a chi compra. Come di fatto, avviene già con i vini “private label”, per esempio, delle catene di distribuzione, anche se solo nei casi più virtuosi si trova il nome dell’azienda, piuttosto che un codice identificativo di fatto pressoché indecifrabile per il consumatore.
Altro tema importante toccato, e su cui riflettere (ma lo diciamo da tempo), è quello del sistema di gestione delle denominazioni, che è affidato ai Consorzi, che non sono enti “terzi”, ma espressione dei produttori. E che se investono, in molti casi, tante risorse nella tutela, ne investono tante, tantissime, molte di più, sulla promozione, ed è un modello che probabilmente, se può funzionare per certi territori dove i valori sono ben remunerativi per chi produce uva e vino, non va bene per altre zone dove il modello produttivo è fragile proprio per il basso valore economico riconosciuto alle uve, e di conseguenza al vino. E dove il mercato lecito non ripaga il lavoro, è più facile che nascano ed attecchiscano pratiche che, con il lavoro di tanti vignaioli e produttori, che lavorano correttamente e con trasparenza, non hanno nulla a che fare.
Insomma, temi importanti, e peraltro non nuovi, va detto, tra gli addetti ai lavori. Ma che, forse, portati all’attenzione di un pubblico più grande di quello della cosiddetta “eno-sfera”, potranno vedere un momento di riflessione più profonda, e magari una riorganizzazione su molti aspetti, soprattutto nell’ottica, lo ribadiamo, della trasparenza, di cui beneficerebbe il vino italiano, che, di certo, non è il regno dei “piccoli chimici”, come si è voluto dipingere, ma una filiera complessa. Una filiera che, come a poche altre, almeno per i vini Dop, è consentito scriversi le regole del gioco, visto che a decidere i disciplinari (pur sempre previa via libera delle Regioni e del Comitato Nazionale Vini, ricordiamolo) sono i Consorzi, ovvero i produttori.
Una filiera non fatta di truffatori seriali o di bugiardi, che pur ci saranno, come in tutti gli ambiti della vita, e che vanno ovviamente scoperti e sanzionati, ma fatta di tante persone che lavorano seriamente, dalla vigna allo scaffale. E una filiera che, in alcune zone d’Italia, crea una ricchezza importante, ed in altre è elemento imprescindibile per la lotta allo spopolamento di certe aree agricole, che senza il reddito portato dal vino sarebbero in buona parte abbandonate, oltre ad essere, come diciamo sempre, elemento di cultura, di socialità, e di narrazione del territorio. Una narrazione che, però, vincerà e avrà futuro quanto più autentica e trasparente sarà.

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