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La cucina tradizionale, la “civiltà del gusto”, la gioia del convito: il pensiero di Tullio Gregory

Gregory e il vino per Gianni Moriani, curatore di “L’eros gastronomico. Elogio dell’identitaria cucina tradizionale contro l’anonima cucina creativa”
CONVITO, CUCINA TRADIZIONALE, GIANNI MORIANI, GUSTO, OSTERIE, TULLIO GREGORY, Non Solo Vino
Gianni Moriani, racconta a WineNews il rapporto di Gregory con il vino

“A tavola si vive un processo di civiltà che è cultura ed è stato così a partire dal “Simposio” di Platone e dall’Ultima Cena in poi. Fin dalle società primitive la manipolazione degli alimenti non risponde solo al bisogno nutrizionale, ma si colloca in un cosmo intellettuale e fantastico ove si incontrano uomini e dèi, sacro e profano, morti e viventi, caricando il cibo di valori che trascendono la sua natura materiale”. Parole di Tullio Gregory tratte da “L’eros gastronomico. Elogio dell’identitaria cucina tradizionale, contro l’anonima cucina creativa”, volume a cura di Gianni Moriani, storico della cucina e del paesaggio agrario italiani, docente del Master in Filosofia del Cibo e del Vino dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che raccoglie i pensieri del filosofo e grande gourmet che, mosso da una vera e propria passione per la gastronomia ed un profondo rispetto per i professionisti dell’arte culinaria tanto da affermare che “fare il cuoco non richiede meno professionalità di uno che fa il filosofo”, traccia il percorso della “civiltà del gusto” e del piacere della tavola, allo scopo di riconquistare il patrimonio di tradizioni enogastronomiche che è parte integrante della nostra storia e recuperare la gioia del convito, momento fondamentale del vivere civile.
Il suo rapporto con il vino? “È l’elemento centrale della tavola - racconta Moriani, a WineNews - dando indicazione di costruire il menù a partire dal vino”, per una cena o un pranzo ideali, perché “noi mangiamo quel che beviamo”. In questo Gregory, sottolinea nel volume, “assomigliava molto a Ernest Hemingway. Ma diceva anche di fare attenzione, perché non è possibile accostarsi con consapevolezza a una bottiglia di vino, gustarne il contenuto, senza aver presente quei referenti storici, mitici, linguistici e culturali che accompagnano la piantagione della vite, la vendemmia, il consumo del vino, evocativi di saperi, manualità e narrazioni che “nel tempo hanno dato particolari valori al frutto di una millenaria fatica”. Date queste premesse, il vino da mettere in tavola deve essere innanzitutto buono, di qualità, va servito alla giusta temperatura e poi bisogna saperlo bere, perché il saper bere vino - che non è ingurgitare un liquido per saziare la sete - è il contrassegno della cultura e della civiltà occidentale, assurgendo a strumento privilegiato di incontro tra uomini e uomini, dèi e uomini, sensualità e spiritualità”. Tanto che, aggiunge, “Gregory, oltre che a bere un vino di qualità, era particolarmente attento e preciso su aspetti a volte sottovalutati. E a conferma del suo carattere di “rompiscatole”, diceva: “se entro in un locale e trovo lo chef o il proprietario con la spocchia, io chiedo non uno, ma due termometri per il vino””.
Attraverso racconti su alcuni alimenti e consigli di lettura, decaloghi del perfetto gastronomo e indicazioni di cottura raccolti nel volume (Editori Laterza, in libreria dal 18 febbraio, pp. 208, prezzo di copertina 16 €), Gregory tuona così contro la cucina creativa in nome della grande tradizione gastronomica italiana, di cui resta poca traccia nella cultura d’oggi: “se chiedo il bollito non voglio il piatto che richiama concetti di carni bollite, ma un carrello dei bolliti”. Per Gregory si deve ritrovare il senso di quella civiltà della cucina, perché a tavola, come diceva lui, c’è “davvero quella verità intera, piacevole, morbida e profumata che possiamo non solo contemplare ma anche gustare”. Il professor Moriani vi ha raccolto lectio, scritti e gli articoli del grande filosofo sul cibo e la cucina, della “Domenica” de “Il Sole 24 Ore” (dal 1994 al 2019). Leitmotiv e punto fermo dei suoi interventi, ricorda Moriani, “è la cucina della tradizione, che è la cucina in rapporto al territorio e alle stagioni, da difendere in quanto fatto culturale”. E nello scegliere tra la cucina creativa - degli chef stellati - e quella tradizionale - delle autentiche osterie - “egli infatti non aveva dubbi nell’optare per la seconda, perché la prima è una cucina dell’improvvisazione”. Famosa “è la sua sentenza con la quale liquidava senza appello la cucina creativa “perché mette tutto sul conto e niente nel piatto” , e, richiamandosi a Brillat-Savarin, “elogiava le grandi porzioni in quanto “ricreano lo spirito””. Non solo: “per avere cibi più leggeri e naturali - diceva Gregory - si è annullata la distinzione tra cultura-natura, cotto-crudo, tradendo la tradizione gastronomica italiana fatta di salse madri e di lunghe cotture”. Altrettanto critico, sottolinea Moriani, “era nei confronti della moda che, con un ribaltamento lessicale, battezza i primi piatti con il nome di dessert, oppure inverte la terminologia tradizionale, facendo comparire sul menù il girello di spigola, nonché la trancia di manzo; così in tavola arrivano cibi dai nomi inconsueti e al tempo stesso non identificabili, perché senza ossi né spine”.
In gastronomia, Gregory diffidava dall’innovazione, perché, sottolinea Moriani, “in cucina, come in ogni disciplina, esistono i manuali che vanno letti e poi sapientemente interpretati con un unico vincolo: “che ci si muova dentro binari ben precisi”. Il rischio dell’innovazione “è quello di non far capire cosa viene messo nel piatto. Piatto che oltre ad essere riconoscibile, deve essere “deve essere buono, non bello””. E lapidario, così Gregory diceva agli chef smaniosi di innovazione: “la creatività è dote rara in cucina, come in altri campi del sapere. Se non sei Einstein, muoviti con le leggi di Newton, e non strafare”.
“Pensieri filosofici” che insistentemente richiamavano il fatto che “la tavola, essendo un punto di incontro, è per eccellenza il luogo della tolleranza, dove “si parla liberamente e trionfa la Ragione”. Grande era il suo disappunto - ricorda Moriani - dovendo constatare che oggi tutto questo rischia di venire meno, perché “abbiamo il fast food, mentre scompare il rito dello stare a tavola in famiglia con genitori e figli che parlano della giornata trascorsa. Oggi spesso vediamo a tavola persone solo chine su tablet e smartphone mentre la tv è accesa. Una solitudine social. Non solo, l’omologazione dei gusti dovuta al fast food e alla moda dei cibi pronti, gli faceva dire che tutto ciò è segno di decadenza della civiltà occidentale. La cucina nasce “al mercato non al supermercato”. Richiamando così alcuni ineludibili principi per una cucina che voglia essere pacata celebrazione dei beni della tavola e del lavoro dell’uomo, “per la realizzazione di una passione vitale, dell’eros gastronomico, nella piena soddisfazione dei convitati”.
Dove cercare allora quella cucina tradizionale, strenuamente difesa da Gregory, si chiede Moriani? “In quella variegata civiltà tradizionale, spesso di origine contadina, ove si sono rifugiati alcuni autentici artigiani del gusto come esperienza sensoriale totale
, interessata alla realtà del cibo, nella sua fisicità e nei suoi valori. È muovendo di qui, da questa cultura tradizionale e regionale, che è possibile tornare a conoscere e apprezzare la civiltà del gusto e del convito”. Un invito, conclude il professore, “a cercare quelle osterie e quelle trattorie fiere delle loro radici popolari, dove le materie prime del territorio sono proposte in piatti stagionali tradizionali a un prezzo peraltro accessibile. E dove non solo si mangia bene, ma si sta bene a tavola, perché fatti soprattutto di persone con un grande senso dell’accoglienza che, assommando piccole storie, contribuiscono a fare la grande storia della cucina italiana: un bene culturale da custodire tramandandolo”. Non a caso Gregory si batteva contro il rischio della rinuncia a tutto questo.

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