Agroalimentare ricchezza diffusa del Belpaese, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, anche se oltre il 60% delle esportazioni sono concentrate in 4 Regioni, Veneto (17%), Lombardia (16%), Emilia Romagna (15%) e Piemonte (12%). Emerge dall’analisi di Nomisma Agrifood Monitor sulla prima metà del 2017, i cui risultati fanno prevedere che a fine anno le esportazioni complessive dal Belpaese supereranno i 40 miliardi di euro (+6% sul 2016), spinto dalla crescita nelle vendite oltre frontiera di vino (+7%), salumi e formaggi (+9%). Un risultato importante per “una filiera che dalla produzione agricola alla distribuzione al dettaglio e ristorazione vale oltre 130 miliardi di euro di valore aggiunto (pari al 9% del Pil italiano), genera lavoro per oltre 3,2 milioni di occupati (il 13% del totale) e coinvolge 1,3 milioni di imprese (il 25% delle aziende attive iscritte nel Registro Imprese delle Camere di Commercio)”, sottolinea Nomisma. Eppure, fa riflettere che l’Italia, che ha nell’agrolimentare uno dei suoi pilastri, e la cui qualità è amata e riconosciuta in tutto il mondo, sia appena alla posizione n. 9 tra i top exporter agroalimentari, lontanissima dagli Usa (122 miliardi di euro esportati nel 2016, 69 tra gennaio e luglio 2017), ma anche dietro ad Olanda (87 miliardi nel 2016, 54 nella prima metà 2017), ma anche da Germania (73 e 44), Cina (64 e 43), Brasile (62 e 36), Francia (59 e 35), Spagna (46 e 29) e Canada (42 e 25). Performance che, ovviamente, vanno correlate anche alla dimensione dei Paesi competitor, alla logistica e alle regole dei diversi Paesi produttori oltre che agli accordi bilaterali e non solo, ma è un dato che, in ogni caso, invita a riflettere, anche perchè, ammesso che il target dei 40 miliardi nel 2017 venga centrato (tra gennaio e luglio 2017 l’Italia ha esportato merci per 22,7 miliardi di euro), raggiungere quota 50 miliardi entro il 2020, come da molti auspicato (tra gli ultimi il Ministro degli Affari Esteri Angelino Alfano, nel lancio della “Settimana della Cucina Italiana nel Mondo” n. 2, dal 20 al 26 novembre, https://goo.gl/i2tUSp), vuol dire crescere di un ulteriore 25% nei prossimi tre anni.
Guardando ai mercati di destinazione, sottolinea ancora Nomisma, sono soprattutto i paesi extra-Ue (seppure rappresentino ancora meno del 35% dell’export totale) ad evidenziare i tassi di crescita più elevati. Tra questi Russia e Cina, con variazioni negli acquisti di prodotti agroalimentari italiani a doppia cifra (oltre il 20%), benché il loro “peso” continui ad essere marginale sul totale dell’export (meno del 2%). In linea invece con la media di settore le esportazioni verso Nord America e paesi Ue (dati gennaio-luglio 2017).
“L’aumento dell’export unito ad un consolidamento della ripresa dei consumi alimentari sul mercato nazionale (+1,1% le vendite alimentari nei primi 9 mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2016) prefigurano un 2017 all’insegna della crescita economica per le imprese della filiera agroalimentare” dichiara Denis Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma.
Ma la rilevanza strategica della filiera agroalimentare va oltre i valori assoluti e si esprime nella sua capacità di tenuta e salvaguardia socioeconomica anche in tempo di crisi.
“Dallo scoppio della recessione globale (2008) ad oggi” continua Pantini “il valore aggiunto della filiera agroalimentare italiana è cresciuto del 16%, contro un calo di oltre l’1% registrato dal settore manifatturiero e un recupero del 2% del totale economia, avvenuto in maniera significativa solamente a partire dal 2015”.
Non male per un settore fortemente frammentato dove le imprese alimentari con più di 50 addetti (quelle medio-grandi) rappresentano appena il 2% del totale, quando in altri paesi competitor - come la Germania - questa incidenza arriva al 10%. E questo spiega anche perché la propensione all’export della nostra industria alimentare sia pari al 23% contro il 33% della Germania, o visto da un’altra angolatura, perché le nostre esportazioni per quanto in crescita siano ancora molto inferiori a quelle francesi (59 miliardi di euro) o tedesche (73 miliardi).
La presenza di imprese più dimensionate unita a reti infrastrutturali più sviluppate nonché a produzioni alimentari maggiormente “market oriented”, sottolinea ancora l’analisi di Nomisma, spiegano anche perché come detto, oltre il 60% dell’export italiano faccia riferimento ad appena 4 regioni: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte, mentre al contrario tutto il Sud del Paese incida per meno del 20% (con la Campania all’8% e la Puglia al 4%).
Un differenziale che rischia di allargarsi ulteriormente anche in quest’anno di trend favorevole ai
nostri prodotti, dato che nel primo semestre 2017 mentre le regioni del Nord Italia hanno messo a
segno una crescita di oltre il 7% nelle vendite oltre frontiera, quelle del Mezzogiorno non sono
riuscite a raggiungere il +2%.
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