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Il business dell’acquisto “etico”: tendenze, dati, identikit del consumatore

Una delle ultime tendenze, rilevate nei consumi sia a livello nazionale che internazionale, è la crescita dei prodotti caratterizzati come equosolidali. L’ultima arrivata è l’acqua “etica”: il gigante americano del caffè, Stairbucks, compra l’acqua minerale Ethos e reinveste parte dei guadagni in programmi di sviluppo per garantire acqua pulita in Bangladesh, Etiopia ed India.

Sulle linee principali dei treni della Virgin, in Gran Bretagna, si serve solo solo tè certificato Fairtrade (commercio equo), marchio internazionale che garantisce condizioni di lavoro umane ed eque.

Segno che anche le multinazionali stanno “saltando sul carro del business etico” per non rimanere fuori da una fetta di mercato in crescita costante e sempre più appetibile, in grado di garantire anche un ritorno in immagine.

Anche perché l’identikit del consumatore di equo solidale non è più soltanto quello nella fascia di 40-50enni, ma tocca anche molti giovani.

Come ha rilevato recentemente il presidente di Slow Food Petrini, la crescita dei grandi gruppi che vendono prodotti equo solidali “sarebbe davvero positiva solo se non ci fosse il sospetto di trovarsi di fronte alla classica “foglia di fico”, inventata per coprire i vizi di sempre.

Com’è possibile che aziende che praticano prezzi al ribasso su tutto, sui prodotti, sui coltivatori, sui contadini, si convertano di colpo all’equo e solidale? Qualche incongruenza c’è nell’essere equi e solidali per alcuni prodotti e non esserlo affatto per tutti gli altri.

Se tanto si insiste su un modello alternativo di produzione, non si può prescindere anche da una certa severità di valutazione nei confronti di chi produce, premiando solo chi, anche a fatica, rimane fedele a questi principi. Altrimenti, si rischia di mettere tutti sullo stesso piano e a trarre i benefici maggiori dalla certificazione sarà proprio chi la usa in modo solo strumentale”.

Fonte: Slow Food, Repubblica, Specchio

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