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RAPPORTO USA: ECCO COME STA ANDANDO UNO DEI MERCATI DI RIFERIMENTO PER IL VINO ITALIANO ALL’INDOMANI DELL’ANNUS HORRIBILIS 2009. I PUNTI DI FORZA E DI DEBOLEZZA SECONDO LEONARDO LOCASCIO, PRESIDENTE DI WINEBOW, UNO DEI PIÙ IMPORTANTI IMPORTATORI

Italia
Leonardo LoCascio

Cosa riserva agli imprenditori del Bel Paese enoico il mercato statunitense, dopo l’annus horribilis 2009? A ben guardare il bilancio del vino italiano negli Usa, Paese epicentro della crisi economica mondiale, non è stato così drammatico o, almeno, ha evidenziato un risultato contrastante, chiudendosi con un +13% in quantità e -11% in valore (dati: Italian Wine & Food Institute).
Un risultato che è figlio di un trend ormai conclamato che vede espandersi negli Usa il consumo dei vini di importazione, ma che al contempo privilegia quelli con i prezzi più competitivi. Una tendenza che, evidentemente, non ha risparmiato il vino tricolore, che ha visto passare i prezzi medi all’origine dei prodotti importati nel 2009 a 4,91 dollari, contro i 5,26 dollari del 2008 (dati: Italian Wine & Food Institute).

Nel dettaglio, crescono molto bene le vendite dei vini italiani sotto i 20 dollari di prezzo al dettaglio (con un trend ancora più positivo per quelli sotto i 15 dollari, mentre quelli sotto i 10 addirittura volano), trainati dal Pinot Grigio, ormai un vero e proprio “marchio” di successo a se stante nel mercato a stelle e strisce, e dal Prosecco, capace di erodere le quote di mercato perdute dallo Champagne, decisamente in crisi di consenso tra i consumatori americani. Dal fronte delle denominazioni, stanno andando molto bene i vini veneti, specialmente quelli prodotti in Valpolicella, con i rossi da ripasso, e il già citato Prosecco. Altrettanto buono il bilancio per i vini abruzzesi e per quelli prodotti in Sicilia, Sardegna, Campania, Puglia e Calabria, che riescono a sfruttare al meglio il loro ottimo rapporto qualità/prezzo e l’appeal originato dai loro vitigni di antica coltivazione, dal Montepulciano all’Aglianico, dal Nero d’Avola al Cannonau, dal Primitivo al Negroamaro, confermando l’interesse sempre crescente da parte del consumatore americano nei riguardi della grande ricchezza ampelografica del Bel Paese.
Non riescono invece ad ottenere lo stesso successo gli “organic wine” made in Italy, i vini cioè ottenuti da agricoltura biologica, che ancora non sono riusciti a catturare l’interesse del trade e della stampa Usa. Un insuccesso, quello degli “organic wine”, che in America è analizzato da un recente studio dell’Università della California (pubblicato sulla rivista Business & Society) nel quale viene sottolineato il fatto che l’etichetta “bio” viene vista dai consumatori come uno “stigma” e non come un valore aggiunto anche se le valutazioni, per esempio, di Wine Spectator su tipologie diverse (bio-non bio) sono sostanzialmente uguali.
Non è quello attuale un buon momento per i cosiddetti Supertuscan. I vini protagonisti del successo internazionale dell’enologia toscana stanno pagando una certa non linearità della loro proposta: troppi nomi di fantasia e prezzi “schizofrenici” non aiutano in un mercato dove il pragmatismo del consumatore è decisivo. Lo spostamento dei consumi verso fasce di prezzo più abbordabili non aiuta neppure le denominazioni più blasonate del Belpaese. E così Brunello, Barolo, Chianti Classico Riserva ecc. stanno soffrendo molto. Resistono solo pochi grandi nomi prodotti in quantità veramente minuscole, che vanno a collezionisti affezionati.

“Il consumo di vino continua a crescere - spiega Leonardo Locascio, presidente di Winebow, uno degli importatori di vini italiani più importanti - ma si è spostato su prezzi medi più bassi. Un fenomeno che interessa i vini di tutto il mondo. In più, si è aggiunto un ostacolo nuovo: consumare generi di lusso nella moda come nel vino è out e non più trendy, e questo fenomeno interessa anche chi non ha problemi di soldi. La situazione generale sta lentamente migliorando, nel senso che distributori ed enoteche stanno tornando ad acquistare dopo aver sensibilmente ridotto i loro stocks, e la ristorazione sta riprendendo - conclude Locascio - La fine della recessione porterà sicuramente un incremento di consumi, ma dubito che si torni presto ai prezzi medi del 2004-2008”.

Ma l’“universo Usa”, il mercato dei mercati, resta sicuramente decisivo per l’Italia del vino e le sue dinamiche interne, nel loro reale evolversi, rappresentano una informazione decisiva per le imprese del vino del Belpaese. In questo senso i segnali che, per esempio, emergono da uno studio dello scorso maggio del London International Wine Fair confermano che il comparto vino italiano deve ancora lavorare parecchio, ma con ampi spazi di ulteriore crescita. Negli Stati Uniti, infatti, la scelta di un vino passa per il vitigno (76% della quota dei consumatori), passaparola (74%), conoscenza del marchio (68%), offerte speciali (60%), paese di provenienza (49%), raccomandazione del venditore (47%), regione di provenienza (46%), raccomandazione dei giornalisti (35%), design bottiglia/etichetta (31%), raccomandazione guide (29%), contenuto di alcol (28%), premi (21%).

L’affinità culturale sulle regioni produttrici di vino vede in Usa primeggiare l’Australia (73% quota dei consumatori), Italia (71%), Nuova Zelanda (61%), Spagna (56%), Germania (49%), Francia (46%), Portogallo (43%), Argentina (32%), Cile (29%), Sud Africa (21%). Il livello di conoscenza delle denominazioni da parte del consumatore americano vede al primo posto Napa Valley (95% della quota dei consumatori), Bordeaux (80%), Champagne (75%), Burgundy (73%), Chablis (69%), Chianti (67%), Beaujolais (50%), Provence (43%), Alsazia (32%), Cotes du Rhone (31%), Loira (29%), Rioja (25%), Prosecco, Cava (17%), Languedoc (13%), Malborough, (12%) Barossa Valley (10%).

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