Modifica dei disciplinari di produzione delle Doc, inserendo i vitigni resistenti - dopo una modifica al Testo Unico che non ne permette l’uso - e regole per la sostenibilità finalizzate ad ottenere una certificazione dallo Stato. Ecco le azioni urgenti necessarie per adeguare i vini alle nuove esigenze legate al cambiamento climatico, alla sostenibilità e ai nuovi profili organolettici richiesti dal mercato delineate da Attilio Scienza - tra i massimi esperti di viticoltura e docente dell’Università di Milano - nella veste di presidente del Comitato Vini Doc, nel suo intervento al convegno, organizzato da Uva Sapiens, società di consulenza nel settore vitivinicolo (“Il vino che verrà. Contaminazioni multidisciplinari per un’evoluzione necessaria”, di cui abbiamo riportato qui).
La reputazione di un vino parte da una condizione necessaria: la vocazione alla viticoltura del territorio di produzione, o almeno così dovrebbe essere. Il professor Attilio Scienza, nell’incipit del suo excursus, sull’evoluzione della vocazione viticola ha ribaltato questo assunto distinguendo il valore simbolico del vino e la sua reificazione, cioè il passaggio da cosa astratta a reale. “La grande reputazione nell’antica Grecia del vino della Tracia, conosciuto come il vino di Dioniso - ha illustrato Scienza, che oltre ad un tecnico è anche una personalità dalla grande visione e cultura umanista - non era legata alla vocazione per la viticoltura di quel territorio, peraltro freddo, ma ai commerci di ambra e stagno sicuramente più importanti del vino ed a un popolo di commercianti navigatori, i Focesi, che organizzavano anche la comunicazione di questo vino. A questo si affiancavano gli aspetti legati alla produzione, alla scelta del vitigno, della forma di allevamento, dei contenitori”. In passato un vino non era famoso per le sue caratteristiche organolettiche interessanti, ma per la possibilità di essere venduto. Non a caso le grandi denominazioni nascono dove ci sono strade e porti, non per la bontà del suolo, del clima o per la capacità del produttore. A dimostrarlo lo sviluppo della viticoltura lungo la via Francigena, per rifocillare coloro che vi transitavano.
“Questa è l’ambiguità del terroir di cui siamo ancora vittime - ha proseguito Scienza - nessuna denominazione attuale, né nostra né francese ha questi elementi. Oggi una Doc è mito o realtà ? Da qui dobbiamo partire per capire cosa significa oggi la vocazione. La qualità si può fare dappertutto, è diventato un prerequisito. L’eccellenza, che vuol dire “spingere fuori”, è a latere della qualità data dal terroir e si sostanzia nei valori etici ed estetici, nel valore/onestà di chi produce e nella capacità di capirlo da parte di chi consuma. Questo rappresenta il salto di qualità che dobbiamo dare ai contenuti di un terroir. Le strategie per tornare ai valori orginari della vocazione del terroir sono l’autenticità, intesa come capacità di interpretare il territorio con un vino, e non è facile per nessuno. In passato i terroir avevano un solo vino e così dovrebbe tornare ad essere: fare un solo vino e farlo bene. Oggi ci sono doc in cui si fanno 10-20 vini: solo uno è autentico gli altri servono ad allargare l’offerta per coprire tutte le occasioni di consumo. Più debole è una denominazione più vini contempla. La parola che definisce il valore di un terroir è “verità”. In greco significa rendere visibile ciò che è invisibile, nel nostro caso chi fa il vino con coscienza “tira fuori”, rende evidente il territorio; in latino, vuol dire muro, difesa da cose che non vanno, quindi si può dire che la verità è riferibile all’etichetta che dice cosa c’è in quella bottiglia. Nel tempo abbiamo fatto confusione tra qualità innata, quella di un ambiente viticolo, di un terroir, e la qualità acquisita che si riferisce alla trasformazione in cantina. Abbiamo dato più importanza a quest’ultima sbagliando. Non a caso i francesi le distinguono e le riferiscono a due leggi diverse. Hanno normato la qualità nel vigneto, delimitando il territorio e fissando le regole per produrre in quel luogo, e poi hanno fatto una legge di tutela dalle sofisticazioni in cantina. Noi non l’abbiamo mai fatto ed è stato un grande sbaglio. Dobbiamo ripensare a questo”.
E infine, Attilio Scienza nelle vesti di presidente del Comitato Vini Doc ha indicato quali sono le urgenze per mettere il settore nelle condizioni di reagire ai cambiamenti in atto. “Siamo di fronte a due temi enormi, cambiamento climatico e sostenibilità, che, fino a 3-5 anni fa, non venivano affrontati, ma che ora coinvolgono il cambiamento dei disciplinari”, ha sottolineato Scienza. Cominciamo a superare le gradazioni alcoliche prescritte, quindi non solo è necessario modificare i disciplinari, ma anche “delocalizzare” la viticoltura (cambiare versanti ed esposizioni, cercare maggiori altitudini, ma senza escludere anche soluzioni più drastiche e così via, ndr). Se, fino ad ieri, si sceglievano ambienti di coltivazione per fare tanti zuccheri e vini di un certo tipo, oggi bisogna invertire la rotta. L’istituzione delle denominazioni risale al 1964: i consumatori di allora, peraltro quasi sempre italiani, né asiatici, né di altri continenti, non sono quelli di oggi. Dobbiamo, quindi, cambiare tipologie di vino e fare in modo che i Consorzi si rendano conto che vini di 15-16 gradi alcol, 40 di estratto e un colore denso non li beve più nessuno. Che non piacciono ai giovani che cercano vini più freschi, anche tra i bianchi”.
“Poi - continua Attilio Scienza, docente dell’Università di Milano e presidente del Comitato Vini Doc, c’è la questione “sostenibilità”: bisogna inserire nei disciplinari delle regole specifiche e lo Stato deve dare la certificazione, garantire la serietà con cui il produttore affronta in suo ambiente per fare il suo vino. E poi c’è la questione dell’adozione dei vitigni resistenti per i vini a denominazione, argomento fondamentale che il Comitato Vini Doc è disponibile ad affrontare, ma non permessa dal Testo Unico, che è necessario pensare di modificare. Infine, tornando alla “vocazione” produttiva di un territorio, voglio sottolinearne la valenza di eredità storica e culturale ricevuta dai nostri predecessori e da tramandare ai nostri figli. La “vocazione” è un patrimonio da non dissipare, perché porta con sé storia passata, un meccanismo culturale che ha trasformato la terra e il paesaggio. E ritengo sia una parola, un concetto che potremo utilizzare con più vantaggio nei prossimi anni”.
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