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EDITORIALE

Affinità e divergenze

A determinare l'attuale successo delle bollicine trentine ci sono sia elementi in qualche modo in linea con il resto della produzione a Metodo Classico italiana e sia vere e proprie particolarità. Iniziamo da quest’ultime. Si tratta di uno spumante con un’impronta territoriale decisa, fatta di altitudine, i vigneti si trovano tra i 400 e i 700 metri sul livello del mare, tanto da meritarsi l’epiteto di “bollicina di montagna”, terreni calcarei e forti escursioni termiche. È la prima Doc Metodo Classico in Italia, con il riconoscimento della denominazione di origine controllata arrivato nel 1993. Il suo disciplinare di produzione, e qui entriamo nel campo degli elementi per così dire “comuni”, prevede un minimo di 15 mesi sui lieviti (36 per una Riserva), ammette i vitigni canonici del Metodo Classico: Chardonnay, Pinot Nero, Pinot Meunier e Pinot Bianco. E poi, ritornando agli elementi distintivi, c’è il Trentodoc (marchio collettivo territoriale nato nel 2007, che raccoglie la maggioranza dei produttori di metodo classico trentino) figlio di un percorso decisamente originale intrapreso in Trentino. Furono gli stessi produttori a voler fondare, nel 1984, un vero e proprio Istituto, appoggiandosi da subito all’Istituto Agrario San Michele. Come a dire, tutela e promozione naturalmente, ma anche la forza del sapere. Poi la svolta del 2007 ad affiancare la Doc Trento (ma “smarcandosi” dagli altri vini non spumanti). Un anno dopo, l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, diventa Fondazione Edmund Mach, continuando nella sua funzione di supporto per i produttori del Metodo Classico di montagna.

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