L’interesse per i vitigni autoctoni è sempre più grande, e coinvolge esperti, critica e consumatori, tanto che (come emerso da Autochtona, il Forum dedicato ai vitigni autoctoni italiani nei giorni scorsi a Bolzano) sempre più varietà legate a confini strettamente regionali riescono a suscitare curiosità anche in regioni differenti da quelle di nascita. Tra questi, escludendo i più noti, ossia Nebbiolo (Barolo e Barbaresco), Sangiovese (Chianti, Brunello), Glera (Prosecco), spicca sicuramente la Ribolla Gialla, storico vitigno autoctono che ha trovato in Friuli-Venezia Giulia la sua terra di elezione, che, negli ultimi 12 mesi, ha registrato 10.000 ricerche in media al mese su Google, provenienti prima di tutto dalla sua regione di origine e dal vicino Veneto, ma anche da Lazio, Liguria ed Emilia-Romagna. A seguire, l’Aglianico, varietà del Sud Italia che dà origine al Taurasi in Campania e all’Aglianico del Vulture in Basilicata, con 5.400 ricerche medie mensili, che spaziano ovunque, dal Lazio alle Marche. Il Lagrein, vitigno autoctono dell’Alto-Adige, vanta 4.500 ricerche medie al mese, non solo dalle provincie di Bolzano e Trento, ma anche da Lombardia e Liguria. E ancora, il Verdicchio, alfiere delle Marche, il laziale Cesanese, il Primitivo, soprattutto se associato a Manduria ed il sardo Cannonau.
E non è un caso che tra i punti di forza del vino italiano nel mondo, così come tra le tendenze più solide, ci siano, secondo le firme più importanti della critica enoica, intercettati anche nelle scorse settimane da WineNews, proprio gli autoctoni. Come ha raccontano dalla “Modena Champagne Experience” (https://champagneexperience.it), la Master of Wine ed autrice Jancis Robinson, “le varietà autoctone stanno passando alle luci della ribalta, l’Italia è il paese con più vitigni autoctoni e sono sicura che questa situazione andrà sempre a migliorarsi, e onestamente vi dico che i consumatori sono alla ricerca di vitigni sconosciuti, si sono annoiati del Cabernet e dello Chardonnay”. Sulla stessa linea Jeannie Cho Lee, una delle voci del vino più influenti in Asia, prima Master of Wine asiatica: “penso che il futuro dei vini appartenga ai vini “indigeni”, quelli da vitigni autoctoni e di espressione territoriale che sono tipici della produzione italiana. La gente vuole qualcosa di diverso rispetto ciò che beve normalmente. Negli Stati Uniti e in Giappone, per esempio, il pubblico comincia a desiderare qualcosa di diverso dai soliti Cabernet il Chardonnay”.
E quello della diversità è, da anni, un tema caro anche a Monica Larner, firma italiana di “The Wine Advocate”, che ha ribadito spesso come “la diversità e la grande varietà di territori e denominazioni, per l’Italia del vino, se all’inizio possono essere un ostacolo, a lungo andare si riveleranno sicuramente un plus, perché l’Italia rimane competitiva grazie al fatto di avere tantissimi territori diversi, ognuno con i suoi produttori”. Come non ricordare il punto di vista di Kerin O’Keefe, italian editor di “Wine Enthusiast”, che ha avuto più volte modo di sottolineare che, “dietro ai grandi territori come Barolo, Chianti Classico e Brunello di Montalcino, ce ne siano tanti altri pronti ad emergere, da Boca all’Etna, ognuno con le proprie varietà e peculiarità”. E non sono certo le uniche a pensarla così, perché anche il guru della critica enoica, James Suckling, ha sottolineato come “i migliori vini italiani, dal Barolo al Brunello, sono ormai in grado di suscitare non solo la curiosità, ma l’interesse dei maggiori distributori anche sui mercati orientali, dalla Cina al Giappone, dalla Russia ai Paesi emergenti come il Kazakistan”.
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