Una ricetta più equilibrata e politiche dell’agricoltura che favoriscano l’aumento della base produttiva - senza temere l’avvento della moderna tecnologia dove invece il “know how” è arretrato - ed una liberalizzazione più graduale e mirata degli scambi commerciali di materie prime agricole, per evitare squilibri e speculazioni sul mercato mondiale, con regole comuni da studiare insieme agli altri Paesi. Sono questi, per Confagricoltura, gli obiettivi da realizzare con una partnership mondiale, per l’agricoltura e la sicurezza mondiale di cui si discuterà al primo “G8 agricolo”, emersi al “Forum Futuro Fertile” di Taormina (26/28 marzo).
Dare stabilità e certezza al mercato agricolo su scala mondiale è necessario per il progresso dell’agricoltura in una doppia, imprescindibile, direzione: da un lato la soluzione al problema della sicurezza alimentare, sia in termini di garanzia di approvvigionamento che di salubrità; dall’altro un aumento diffuso della qualità della produzione.
Gli stessi obiettivi che dagli anni ’50 ad oggi hanno contribuito decisamente, grazie alla rivoluzione verde, agli enormi balzi in avanti nelle produzioni, alle innovazioni tecnologiche, all’aumento delle rese e al miglioramento della qualità dei cibi. A una crescita dell’aspettativa di vita media nel mondo da 46 a 67 anni. Inoltre, le proiezioni delle Nazioni Unite ci dicono che la popolazione mondiale è destinata a crescere rapidamente: oggi siamo 6,7 miliardi di abitanti, entro il 2015 supereremo i 7 miliardi; e poi 8,1 miliardi nel 2030 e più di 9 entro il 2050: anche per questo l’agricoltura non potrà mai passare di moda, sia perché risponde al bisogno primario e fondamentale dell’uomo, quello di mangiare, sia perché in futuro saranno sempre di più le persone da nutrire.
Per questo, secondo Confagricoltura, c’è bisogno di un rilancio delle produzioni, di regole comuni e di strumenti per gestire il mercato, che non possono andare né nella direzione del protezionismo, né in quella di una liberalizzazione sfrenata degli scambi, che causerebbe squilibri devastanti, soprattutto a scapito dei Paesi in via di sviluppo. La necessità di nuove regole è dettata anche da quanto successo di recente: sembra ormai passata la crisi delle materie prime alimentari che ha alimentato tra il 2007 ed il 2008 una spirale di prezzi al rialzo; le quotazioni sono scese e per gli operatori del settore è rimasta la chiara sensazione che la stabilità dei mercati sia solo un ricordo.
Basta una serie di eventi collegati l’un l’altro per ridurre le produzioni ed alzare i prezzi; o, viceversa, per aumentare gli stock e innescare un’ondata ribassista. Inutile dire che a risentire di questa instabilità sono innanzitutto i redditi degli agricoltori.
Servono dunque in primo luogo politiche che consentano di allargare la base produttiva: non a caso stanno aumentando gli investimenti diretti da parte di Paesi ricchi, ma oggi dipendenti dalle importazioni: Arabia Saudita e Paesi del Golfo, Giappone, Cina, India, Corea, Libia ed Egitto, che stanno sconvolgendo la geografia economica internazionale delle produzioni agricole specie per i cereali.
Per fare degli esempi, la Corea del Sud ha concluso un contratto di locazione di oltre 1 milione di ettari per 99 anni con il Madagascar per la produzione di mais e olio di palma; la Cina ha già circa 40.000 ettari di terreni in Australia e sta acquistando o affittando terreni nelle Filippine, Laos, Kazakistan, Birmania, Cameroon ed Uganda; Arabia Saudita, Emirati Arabi, Barhain ed altri Paesi del Golfo hanno prenotato milioni di acri in Indonesia, Pakistan, Sudan ed Egitto. Operazioni che sono però considerate contrarie allo sviluppo delle agricolture locali, e quindi negative, perché vanno nella strada del protezionismo. Ma non è detto neppure che una liberalizzazione selvaggia degli scambi sia di per sé positiva, soprattutto per i Paesi in via di sviluppo.
Secondo uno studio dell’International Food Policy Research Institute, la liberalizzazione totale degli scambi determinerebbe una flessione delle produzioni agroalimentari ed un aumento dei prezzi delle materie prime agricole. Il frumento costerebbe quasi l’11% in più rispetto ad uno scenario più protezionista; il prezzo di carne e latte aumenterebbe tra il 5% ed il 6%, l’ortofrutta di oltre il 5%. Nei Paesi sviluppati, tranne che in Australia e Nuova Zelanda, e in misura minore gli Usa, si registrerebbe un calo della produzione agroalimentare.
La liberalizzazione degli scambi avrebbe, dunque, un effetto spiazzamento a danno delle agricolture tradizionali, tra cui quella europea, che ridurrebbe la produzione complessiva e la sposterebbe a favore dei nuovi player dell’agricoltura mondiale. Che non a caso stanno perseguendo in ambito Wto obiettivi di totale apertura delle frontiere.
Un aumento dei prezzi, inoltre, non sarebbe positivo nemmeno per i Paesi in via di sviluppo prevalentemente agricoli: un prezzo maggiore favorisce l’export a scapito del consumo interno; buona parte delle instabilità sociali in occasione della crisi alimentare mondiale è stata innescata proprio dalla “fuga” delle produzioni; molti dei Paesi meno sviluppati sono importatori netti di materie prime agricole, non esportatori. E quindi sarebbero colpiti negativamente da un aumento dei prezzi. In poche parole, la liberalizzazione può essere fonte di ulteriore instabilità e rischia di determinare un aumento notevole del commercio internazionale di prodotti agricoli (+34% rispetto ad aumenti molto più modesti per gli altri settori) a fronte di un modestissimo aumento del benessere complessivo dello 0,33% (misurato in termini di variazione del reddito netto).
Da qui nasce, secondo Confagricoltura, il bisogno di promuovere la produzione agricola, anche per combattere la piaga della sottonutrizione e trovare un nuovo equilibrio basato su regole comuni.
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