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IL DIBATTITO INTERNAZIONALE

Il cibo prima, durante e dopo la pandemia, e il cambiamento delle opinioni sulla globalizzazione

Nell’emergenza Covid, il cibo non è mai mancato, made in Italy compreso. “Merito” del mondo globalizzato? Si. E dell’industria alimentare
ALIMENTAZIONE, COVID-19, GLOBALIZZAZIONE, MICHAEL POLLAN, THE ECONOMIST, Mondo
Un mondo fatto di cibo

L’alimentazione ai tempi della globalizzazione, e ora di una pandemia globale: l’emergenza Covid ha aperto nuovi interrogativi anche sul rapporto, da sempre dibattuto, sul valore del cibo nel mondo globalizzato, tanto che tra le eredità più importanti che si pensa lascerà, secondo gli economisti, c’è un cambiamento delle nostre opinioni sulla globalizzazione. Che va controllata, perché gli eventi globali ci rendono vulnerabili, tutti allo stesso modo, ma alla quale, evidenzia un’analisi del settimanale “The Economist”, appartiene anche una catena di approvvigionamento globale del valore di 8 miliardi di dollari, che è pari al 10% del Pil mondiale, impiega 1,5 miliardi di persone, e che ha reagito velocemente, adattandosi all’emergenza, permettendo a milioni di aziende di fare altrettanto.
Dall’inizio della pandemia, la globalizzazione, con l’apertura dei mercati e le frontiere aperte (rispetto alla crisi 2007-2008 le politiche protezionistiche nel mondo sono passate dal 19% dell’export alimentare al 5% di oggi), fatta di regole, ma anche di concorrenza, non ha permesso solo a colossi come Amazon di aumentare la propria capacità di vendita dei soli alimentari del 60% o giganti della distribuzione come Walmart di assumere qualcosa come 150.000 persone. A trarne benefeci è stato anche un Paese come l’Italia, grazie alla sua struttura industriale e a produzioni capaci di competere sui mercati internazionali. Da un’indagine di WineNews tra oltre 100 tra cantine, imprenditori, ricercatori e operatori di mercato, è emerso come a tenere, tutto sommato, è stato anche l’export enoico, pur messo in difficoltà dal lockdown di tanti Paesi, con il conseguente blocco della ristorazione. Anzi, nell’area Extra Ue, nei primi 4 mesi c’è stata addirittura una crescita, per il made in Italy agroalimentare in generale, e per il vino in particolare, che nei Paesi terzi ha visto crescere le esportazioni del 3,3%, per un valore di 1,03 miliardi di euro, secondo i dati doganali analizzati da Confagricoltura. Anche se è un dato che va letto soprattutto alla luce dell’aumento imponente di gennaio 2020, con gli Usa, mercato fondamentale, che hanno fatto corsa alle scorte per la paura dei dazi, poi per fortuna non arrivati, mentre febbraio, marzo e aprile sono stati mesi in calo, ma non di crollo, con la perdite nell’ordine del -3-4%, che in un quadro simile sono da salutare quasi come un successo.
Ma la pandemia, sostiene Michael Pollan, uno dei più importanti giornalisti e scrittori gastronomici, sul “The New York Review of Books”, ha scoperchiato i punti deboli del sistema fondato sull’accentramento e la concentrazione dell’industria alimentare, mostrandoci da un lato agricoltori costretti a buttare via i raccolti, dall’altro le infinite code fuori dei supermercati. Nel lockdown, le piccole economie e le produzioni locali hanno pagato un prezzo altissimo, mentre i colossi dell’industria alimentare hanno continuato, se non aumentato, i loro affari continuando ad approvvigionare di cibo tutto il pianeta.
E forse, il momento di rivedere l’intero sistema e di ripensarlo radicalmente su scala più locale, etica e nel segno della giustizia sociale, oltre che del rispetto ambientale, è davvero arrivato.

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