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Il mercato del vino di Israele, nel cuore del Medio Oriente, è tra i più complessi del mondo. Il consumo medio non supera i 6 litri pro capite annui, l’import è ancora basso (30%), e la vera sfida per il futuro è sulle spalle dei piccoli produttori

Se pensiamo che il mercato del vino italiano sia complesso, frammentato e difficile, quello israeliano, in confronto, è a dir poco imperscrutabile. Quando si parla di consumo medio pro capite, infatti, dobbiamo prendere in considerazione almeno due variabili: siamo nel bel mezzo del Medio Oriente, ed il Paese è storicamente diviso in due, da una parte il mondo israeliano, dall’altra quello arabo, e quindi islamico che, per motivi prettamente religiosi, non beve vino. Come se non bastasse, nell’analisi dei consumi complessivi, bisogna sempre considerare che una parte importante del vino consumato nel Paese è legata a motivi religiosi. Così, se il consumo medio annuo pro capite, al netto della popolazione di fede islamica, è arrivato negli ultimi anni a 8 litri, almeno 2 di essi devono essere ascritti a ricorrenze religiose, durante le quali non si beve vero e proprio vino. Dei restanti 6, la stragrande maggioranza è rappresentata dal vino locale, e solo il 30% da vino importato, una quota in cui a fare la parte del leone sono Cava e Lambrusco, che insieme valgono tra il 50 ed il 55% dei consumi di vino importato. Ed il resto? È questo l’aspetto più interessante, perché in Israele si producono tra i 35 ed i 40 milioni di litri di vino ogni anno (nel 2014 sono stati 38 milioni di litri), e di questi la metà (tra i 18 ed i 20 milioni di litri) sono prodotti dalle prime cinque cantine del Paese, fondate nell’arco di un secolo, tra la fine del 1800 e la fine del 1900, e che oggi producono milioni di bottiglie. Il resto della produzione è, invece, rappresentato dalla nuova generazione di vigneron, che hanno rilevato kibbutz sull’orlo dell’abbandono, o aziende agricole tutte da ristrutturare. Cantine con meno di venti anni di storia, figlie di una nuova generazione, cresciuta tra i filari di Francia, per poi tornare in Israele con un know how abbastanza solido da rivoluzionare il concetto di vino, puntando forte sulla qualità.
Di strada da fare, però, ce n’è ancora tanta, le “boutique wineries”, dove si producono tra le 25.000 e le 80.000 bottiglie, vivono di sperimentazione. Se la viticoltura ha radici antichissime, infatti, il nuovo corso si basa esclusivamente su varietà internazionali, cercando, nelle diverse Regioni (Galilea, Giudea e Golan sono le più importanti), le più performanti. Così, a fianco di filari di Chardonnay e Sauvignon Blanc, si stagliano quelli di Chenin Blanc, senza dubbio tra le varietà migliori nel Nord del Paese, mentre tra i rossi, sulla falsa riga della Napa Valley, è il Cabernet s farla da padrone, insieme allo Shiraz ed al Merlot, nel più classico degli approcci internazionali.
E per il futuro? Difficile capire un Paese, ed un mercato, tanto complessi. Il consumo medio cresce molto lentamente, e allora il vero obiettivo, oggi, è formare consumatori consapevoli, capaci di apprezzare il buon vino, e premiare non solo le piccole produzioni israeliane, ma anche i grandi vini del Belpaese, quasi sconosciuti, se si eccettuano le due Regioni leader in qualità, Toscana e Piemonte, con i loro Sangiovese ed i loro Nebbiolo.

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