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Il mondo del vino nel suo insieme deve fare i conti con il prezzo stracciato anche dei suoi prodotti più importanti. Non è una buona cosa, ma è la realtà
di Franco Pallini

A festività di fine anno non ancora del tutto esaurite, capita con buona regolarità di imbattersi tra gli scaffali della grande distribuzione (ma anche di qualche enoteca) in bottiglie di vino, specie di spumante, dai prezzi a dir poco concorrenziali. Una “consuetudine” che, peraltro, non interessa soltanto questa tipologia ma riguarda, o ha riguardato, anche molti dei vini rossi e bianchi delle denominazioni più importanti del Bel Paese.

Evidente il danno di immagine che arriva da questo tipo di offerta, che colpisce inevitabilmente a pioggia e danneggia da un lato il marchio e/o il territorio consortile e dall’altro le aziende che hanno speso un grande lavoro, oltre a notevoli risorse, arrivando a rendere il loro posizionamento di prezzo ingiustificato.

Siamo diventati competitivi nel segmento dei “premium wines” in un periodo di “vacche grasse”, ormai decisamente passato e forse irripetibile, quando vendere il vino era semplicissimo, trattandosi essenzialmente di “assegnazioni”, ma, al contempo, abbiamo lasciato che tutto un segmento di mercato, quello dei “table wines”, si indebolisse, fino quasi a scomparire dai nostri portafoglio prodotti. Questo, tanto per ricordare e ricordarci un esempio tra i tanti della poco lungimirante strategia del comparto, che, purtroppo, in epoca di dura crisi, finisce per mostrare tutta la sua debolezza proprio attraverso fenomeni come quello della corsa sfrenata all’abbassamento dei prezzi anche di tipologie e denominazioni importanti.

Ma, per quanto spiacevole e dannoso, possa sembrare questo fenomeno, oltre a rivelarsi una ulteriore strategia di corto respiro, purtroppo, va inquadrato per quello che è: una dinamica che succede a varie latitudini, in Italia come nei mercati internazionali. L’attuale crisi ha riportato tutto e tutti nell’alveo “naturale” del mercato e delle sue regole ferree, prima fra tutte quella della domanda e dell’offerta, e, in un periodo come questo, difficile non ricorrere a diminuzioni di prezzo anche sensibili che non “guardano in faccia” neppure etichette o denominazioni blasonate.

Certo, scontistica spinta, promozioni selvagge da parte soprattutto della grande distribuzione (rese però possibili a monte da aziende compiacenti), veri e propri fenomeni di dumping più o meno velati, sono elementi di ulteriore condizionamento di un mercato già difficile e, talvolta, di vera e propria concorrenza sleale e rischiano di fare danni recuperabili soltanto con un paziente, lungo e per nulla certo lavoro di “ri-riposizionamento” dei prezzi delle nostre etichette. Ma proviamo a chiederci cosa potrebbe accadere se non fosse garantito un minimo di circolazione del prodotto nelle grandi cantine o se la grande distribuzione non vendesse il vino (anzi, in futuro, potrebbe essere il canale di vendita principale anche per i prodotti più blasonati).

Insomma, bisogna cominciare a guardare quello che sta accadendo nel comparto vino con un occhio un po’ meno “poetico” e cominciare a considerare che economie di scala (per chi può farle), politiche dei prezzi aggressive e gestioni industriali delle cantine fanno parte di questo mondo. Il che, naturalmente, non significa ridurre tutto il variegato “pianeta vino” soltanto a questa dimensione, ma vuol dire semplicemente guardare alla realtà per quello che è, magari dandosi la possibilità di costruire strategie più valide di quelle per ora in gioco, cominciando, per esempio, col segnare una netta linea di demarcazione fra l’industria del vino e l’artigianato del vino, cosa che in Italia per troppi anni non si è voluta fare, confondendo clienti, mercato e gli stessi manager aziendali, alle prese con piani di marketing per etichette d’elite e piani commerciali per vini “da battaglia”, magari da presentare al medesimo cliente sotto lo stesso marchio.

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