Il business del vino a livello mondiale sembra florido, e la maggior parte degli indicatori lo danno in crescita, grazie alle buone performance del mercato n. 1 al mondo, gli Usa, alla crescita dell’Asia, che compensano la sostanziale tenuta e qualche calo nei Paesi della Vecchia Europa. Eppure, avrà sempre meno “padroni”, perchè anche in un settore economico ancora sano e florido, tante cantine, soprattutto piccole griffe di altissimo livello, stanno passando di mano. E nella fiorente industria vinicola americana, relativamente giovane, emerge che addirittura la la metà delle cantine potrebbe essere venduta nei prossimi 5 anni. È quanto sostiene Rob McMillan, autore dello “State of the Wine Industry 2017” della Silicon Valley Bank, e fondatore del ramo dedicato al vino della banca californiana. I dati parlano chiaro: solo in California ed Oregon, il territorio “storico” e quello emergente dell’enologia Usa, ben 35 cantine di prestigio nell’ultimo anno sono state vendute. E secondo McMillan, come riporta “Bloomberg”, non si tratta di un fenomeno speculativo, di una bolla di investimenti immobiliari. Da un sondaggio tra i proprietari di cantine negli States, infatti, emerge che il 30% si aspetta di vendere l’azienda nel giro di 5 anni, o quanto meno ci sta pensando, e un ulteriore 20% non esclude comunque questa possibilità.
Alla finestra, ovviamente, ci sono grandi realtà del vino mondiale, o anche investitori da altri settori, che guardano soprattutto alle piccole realtà più prestigiose. I motivi di questa abbondanza di realtà potenzialmente sul mercato, sono tante, spiega il report: da un lato chi ha capacità finanziare vuole accaparrarsi i migliori terreni nei territori più prestigiosi, la cui disponibilità, per altro, sta diminuendo, e quindi chi vende asset di questo genere può spuntare prezzi davvero vantaggiosi. Ma c’è anche il fatto che molti proprietari ed imprenditori del vino stanno invecchiando, e se non hanno eredi disposti a continuare l’attività vedono nella vendita l’unica via percorribile. E poi c’è anche il fatto che in un mercato sempre più difficile, competitivo e che richiede investimenti economicamente sempre più importanti, spesso le piccole realtà, per quanto prestigiose, da sole non ce la fanno più, e così molte “boutique wineries” passano di mano, del tutto o in quota parte, per finire sotto l’egida di gruppi più grandi che possono beneficiare di sinergie migliori in termini di risorse per il marketing e non solo.
Una dinamica che, sottolinea Elin McCoy su “Bloomberg”, non riguarda solo gli Stati Uniti, ma anche la Vecchia Europa. E casi recenti in questo senso non mancano davvero: ad inizio 2017 è arrivata la notizia dell’acquisto della maggioranza della cantina icona di Borgonga Bonneau Du Martray da parte di Stan Kroenke, miliardario già proprietario di una delle realtà simbolo di californiana Screamin Eagle (oltre che di tante altre cose come l’Arsenal F.C.), mentre sul versante Italiano le case history di maggior rilievo, secondo la testata finanziaria, in questo senso, sono state la cessione di Vietti, storico marchio del Barolo passato alla famiglia americana Krause, e l’ingresso in maggioranza del gruppo francese Epi Group di Christopher Descours in Biondi-Santi, proprietaria della tenuta di famiglia “Il Greppo”, dove è nato il Brunello.
Ma, solo nel Belpaese, sono state decine nell’ultimo anno le acquisizioni eccellenti (https://goo.gl/nSJkmE), come quella che ha visto Sella e Mosca in Sardegna e Teruzzi & Puthod a San Gimignano passate dal gruppo Campari a Terra & Moretti con gli asiatici di Nuo Capital, solo per fare degli esempi.
D’altra parte, la crescita del fenomeno del “mergers and acquisitions” nel mondo del vino sembra inarrestabile, anche in Italia, come già sottolineato in passato a WineNews da Lorenzo Tersi (https://goo.gl/IkGAvF), fondatore di fondatore e guida di LT Wine&Food Advisory (www.ltadvisory.it): “evidentemente oggi servono nuove leve per competere a livello mondiale, perché è vero che l’Italia è il produttore n. 1 al mondo ma ha anche la possibilità di crescere ancora e favorire quel percorso di internazionalizzazione che contraddistingue le nostre imprese. È evidente che per competere, oggi più che mai, vanno create azioni e sinergie che permettono di raggiungere mercati dove c’è grande competizione, e anche mercati nuovi. E, in questa fase storica, c’è stata un’accelerazione, in questo senso, del percorso di aggregazione commerciale delle realtà del vino, anche con l’arrivo di capitali esterni, secondo un modello di sviluppo industriale messo in atto anche da famiglie storiche del vino italiano, come hanno fatto, per esempio, nomi come Antinori e Frescobaldi, passando per i Fratelli Lunelli (Ferrari), che hanno fatto tante acquisizioni negli ultimi anni. Ma anche produttori come Feudi di San Gregorio, per esempio, che dove aver completato il processo di acquisizione di aziende al Sud, poi ha investito a Bolgheri. O Santa Margherita, che ha messo insieme tante realtà importanti in diversi territori. Sono solo esempi di un periodo in cui c’è un fermento fruttuoso da sfruttare al massimo, anche affinché i produttori mettano insieme quella massa critica necessaria per competere nei mercati del mondo. Anche perché - aggiunge Tersi - bisogna essere economicamente sostenibili. E il piccolo fa fatica ad esserlo. Essere piccoli, per chi se lo può permettere, è molto bello. Ma penso che mettendosi insieme si va più lontano, perché abbiamo visto che aggiungere e aggregare valori ad un’impresa del vino che nasce in Toscana, per esempio, e poi differenzia in altre Regioni, con prodotti diversi aiuta. E poi quello per la crescita è un biglietto di sola andata”. Un’analisi tagliata sull’Italia che, ormai, evidentemente, è valida anche a livello mondiale.
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