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TROPPO ALTO IL GRADO ALCOLICO DEI VINI ITALIANI E FORSE IL MERCATO CERCA VINI PIÙ “LEGGERI”. COME GESTIRE QUESTA NUOVA PROBLEMATICA? RISPONDONO A WINENEWS FERRINI, COTARELLA, LANDI, VALENTI, ENOLOGI TRA I PIÙ QUALIFICATI D’ITALIA

Italia
I colori nel bicchiere

L’elevata gradazione alcolica dei vini sta diventando un problema agli occhi del pubblico dei consumatori medi, sempre più a caccia di prodotti cosiddetti “leggeri”, e di parte dei media che, con una qualche ragione, sta dedicando un’attenzione crescente proprio a quei vini, dalla bevibilità, almeno sulla carta, più piacevole e meno impegnativa.

Dal punto di vista organolettico, però, la gradazione alcolica non è poi un elemento così decisivo nel determinare una maggiore o minore bevibilità o una maggiore o minore qualità di un vino. Se si è raccolto un’uva sana, al punto giusto della sua maturazione, e quindi con una buona acidità e una buona struttura, non c’è assolutamente nulla di male nell’avere un vino ad alta gradazione, anzi. Il vino, infatti, dovrebbe essere un punto ormai decisamente noto e assodato, è il risultato di un complesso, quanto fondamentale equilibrio fra le sue varie componenti e la considerazione univoca ed isolata di una sola di queste, è, di solito, fuorviante o addirittura sbagliata. Altra storia, che accenniamo per completezza, è invece quella dei vini stilisticamente “forzati”, ottenuti, di solito, attraverso una surmaturazione delle uve o una disidratazione del grappolo sulla pianta, ma anche attraverso tecniche di estrazione estrema in fase di fermentazione, che, evidentemente, alterano del tutto le caratteristiche di un vitigno e poi di un vino, fino a renderlo un prodotto senza origine e, soprattutto, senza originalità. Vini, ricordiamolo, che, comunque la si pensi, rappresentano, ancora, il modello preferito dai mercati.

Detto questo, tuttavia, un problema sulla gestione del grado alcolico dei vini italiani (estendibile, peraltro, anche alla Francia) sembrerebbe realmente esistere e si accinge a rappresentare un nuovo banco di prova per aziende e tecnici.

Le cause sono riconducibili principalmente a due fattori: da una parte un certo cambiamento climatico, o, se si preferisce non avventurarsi in previsioni, almeno una diversa distribuzione del calore e delle piogge sui nostri vigneti, che ha, per così dire, compromesso la gradualità dei tempi di maturazione delle uve; dall’altro gli effetti delle tecniche agronomiche più moderne e delle migliori scelte clonali, che hanno ormai cambiato lo standard qualitativo pressoché dell’intero “vigneto Italia”, aumentando, appunto, anche la capacità dei vigneti di accumulare gradi zuccherini.

La somma di questi due fattori sta obbiettivamente creando qualche difficoltà e se il mercato richiederà prodotti a più basso contenuto alcolico, le armi a disposizione delle aziende e dei tecnici per rispondere a questa nuova sollecitazione dovranno essere tenute a portata di mano. Difficile, infatti, specie per i vini rossi del Bel Paese, non ottenere 14 gradi alcolici, semplicemente vendemmiando a perfetta maturità tecnologica (zuccheri e acidità totale) e fenolica (polifenoli) uve da vigne ben condotte in annate normali e in zone che non siano di montagna.

Senza scomodare pratiche enologiche estreme come la dealcolizzazione attraverso “spinning cone column”, metodologia attualmente vietata e decisamente devastante rispetto al quadro aromatico di un vino e considerando ancora prematuro un uso sistematico di lieviti adeguatamente “educati”geneticamente a produrre meno alcol, le opzioni a disposizione dei tecnici sono comunque molte. In cantina, per esempio,l’accresciuto grado alcolico può essere “stemperato” con un’aggiunta di acido tartarico, oppure può essere “saltata” la fermentazione malolattica, ma le operazioni dai risultati migliori sono riconducibili in massima parte ad una più attenta gestione del vigneto, dalla scelta dei tempi di vendemmia, alla lavoro sui sistemi di allevamento e sulle rese a ceppo, dalla gestione dell’apparato fogliare, all’irrigazione.

Carlo Ferrini, enologo e consulente di tante tra le aziende più importanti del panorama enologico nazionale, spiega che “il problema esiste e soltanto una gestione più attenta del vigneto può arginarlo”. Il tecnico toscano concentra la propria attenzione specialmente “sulla gestione della foglia”, ricordando come la viticoltura italiana abbia nel suo patrimonio esperienze molto varie. “La viticoltura siciliana - spiega Ferrini - ha tradizionalmente una sorta di “culto della foglia” bisogna quindi trasferire quell’esperienza anche nelle altre zone d’Italia”. Per l’enologo di Castello di Fonterutoli, Tasca d’Almerita, Donnafugata, Casanova di Neri, Tenuta San Leonardo, “in Toscana, solo per fare un esempio, non ricorriamo più alle pratiche di arricchimento almeno dal 2000”, tuttavia, “l’irrigazione resta ancora una pratica da destinare ai vigneti giovani”, mentre osserva che il problema “colpisce più seriamente i vitigni a bacca rossa di quelli a bacca bianca”. Sembrerebbe un paradosso, data la notoria e superiore delicatezza dei vitigni a bacca bianca, ma, per lo Chardonnay piuttosto che per il Verdicchio il problema è di più facile gestione, intervenendo semplicemente sui tempi di vendemmia. Sui vitigni a bacca rossa, invece, essendo decisiva anche la maturità fenolica, che, solitamente, arriva sempre più tardi di quella tecnologica, la questione si complica e un ritardo nella vendemmia può portare gli zuccheri a livelli troppo alti, stemperare l’acidità e compromettere gli aromi esposti ad una prolungata azione del calore.

Anche per Riccardo Cotarella, forse l’enologo italiano più famoso al mondo, anche per le sue importanti consulenze all’estero, “il nuovo andamento climatico porta con sé un problema di gestione del grado alcolico, anche se, ha consentito, in zone in passato sfavorite, di ottenere uve ben mature anche su vitigni difficili come Aglianico o Sangiovese”. Resta, comunque, anche nell’opinione del tecnico che guida, insieme al fratello Renzo (direttore generale Antinori), l’azienda umbra Falesco “la possibilità di una gestione più attenta del vigneto, dall’aumento delle rese a ceppo alla gestione delle foglie” mentre “l’irrigazione potrebbe rappresentare un arma a doppio taglio, specialmente se impiegata in terreni tendenzialmente siccitosi”.
Lorenzo Landi, direttore della produzione di Saiagricola (con aziende in Toscana Umbria, Piemonte) e consulente di importanti aziende come l’umbra Lungarotti, commenta che “negli ultimi 15 anni i dati sembrano concordare su un innalzamento delle temperature e una diminuzione delle piogge. Abbiamo i mezzi agronomici per rispondere a queste nuove sollecitazioni. L’obbiettivo è sempre quello di raggiungere un equilibrio, rendendo flessibili al mutare delle condizioni le nostre tecniche di allevamento della vite e, in questo senso, comincio a pensare che sia necessario avere una posizione più possibilista anche su pratiche come l’irrigazione”.

Decisamente opposto il parere di Leonardo Valenti, professore di viticoltura dell’Università di Milano e consulente di cantine del calibro di Caprai e Berlucchi, almeno sull’uso dell’irrigazione “l’acqua ce n’è sempre meno e quindi non va usata per fare il vino, cioè un bene voluttuario. Se i mutamenti climatici non permetteranno più di praticare la viticoltura in certe zone, allora dovremo spostarci in altre. Non sarebbe la prima volta, è accaduto già in altri periodi della nostra storia”. Ma al di là dell’irrigazione la gestione del grado alcolico, per Valenti si affronta principalmente “agendo sulle rese in uva dei vigneti che devono essere un po’ aumentate”. Tuttavia, specialmente per i vini di qualità, spiega ancora Valenti “troviamo degli ostacoli già a partire dai disciplinari”. Infatti, sottolinea ancora il docente milanese “se io ho un vigneto a 6.000-7.000 piante ad ettaro, probabilmente la sua resa più equilibrata si troverà a 100-120 quintali di uva per ettaro. Ma se il disciplinare prevede una resa minima inferiore, io non potrò puntare al migliore equilibrio per legge”.

Insomma, la gestione del grado alcolico nel futuro prossimo potrebbe diventare uno dei problemi più scottanti, è proprio il caso di dirlo, per il vino italiano, specialmente se la tendenza climatica resterà quella di questi ultimi 10-15 anni. E non sarà soltanto un problema, chiamiamolo, “organolettico”, o di nuova domanda di mercato, ma anche legale nel senso che sarà necessario domare l’esuberanza alcolica dei nostri vini perché, ricordiamo, oltre i 15 gradi, la nostra legislazione e quella europea li classificati come “liquorosi”.
Franco Pallini

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