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Troppo “estremismo” produttivo continua a contraddistinguere l'enologia e la viticoltura italiana
di Franco Pallini

Rasenta il luogo comune il fatto che i vini italiani, in grandissima parte, hanno raggiunto gli attuali ed importanti risultati qualitativi, a partire, grosso modo, dall’annus horribilis del metanolo (1986, ricordiamolo, praticamente l’altro ieri). Inevitabile, quindi, che l’enologia e la viticoltura del Bel Paese, accanto agli indubbi successi rapidamente conquistati, abbiano commesso anche alcuni “peccati” di gioventù, originati soprattutto da una quasi necessaria inesperienza: primo fra tutti, un utilizzo piuttosto massiccio di una sorta di ”estremismo” produttivo, extrema ratio imposta dalla incessante rincorsa al miglioramento.
Ecco che allora è tutto un fiorire di “eccessi”, ma sempre più faticosamente rubricabili come “peccati” di gioventù, mostrandosi piuttosto figli di progetti a breve termine e, di conseguenza, a corto respiro. Solo per fare alcuni esempi, la stragrande maggioranza degli enologi ha prodotto nel recente passato (ma, a dire il vero, produce ancora) vini di straordinaria prestanza “fisica”, come a voler esorcizzare una sorta di complesso di inferiorità. In viticoltura - anche se il “Vigneto Italia” resta ancora l’anello debole delle filiera, contrastando in modo evidente (e in certi casi imbarazzante) con la nostra grandeur enoica - sono in aumento esponenziale i vigneti con un numero di piante ad ettaro estremamente alto, più figli di una non meglio definita moda dell’”alta densità”, che di serie e consapevoli opzioni agronomiche.
Ma esistono radicalizzazioni anche di segno opposto, come il pressoché assente intervento dell’uomo in vinificazione o l’uso della omeopatia nella gestione di un vigneto. Misure di per sé né giuste né sbagliate, ma che necessitano, evidentemente, di precise e convinte scelte e non soltanto di astute strategie di marketing.
Eccessi ed estremismi che non hanno fatto altro che creare “fazioni” contrapposte: da una parte i “positivisti” dell’enologia, che guardano ad una disciplina squisitamente sperimentale come se fosse una scienza esatta, dall’altra i fautori dei vini “veri”, autentici, puri e via amenizzando. I primi inseguono un’asettica riproducibilità tecnica del vino, gli altri, convinti dell’esistenza di una sorta di Arcadia enoica, sembrano dimenticare che il vino resta un prodotto di trasformazione, rincorrendo il sogno impossibile della sua totale naturalità.
Forse non sarà sfuggito che, come sempre, gli estremi finiscono con il ricongiungersi pacificamente. In questo caso, in nome dell’omologazione: i “positivisti” dell’enologia intrappolando i loro vini in protocolli di produzione più propri dei succhi di frutta, i fautori dei fantomatici vini “veri” appiattendo i loro prodotti sotto il peso di un “pesante” stile, per esempio nettamente ossidativo, che, è banale dirlo, dà lo stesso risultato sia in vini provenienti dalla blasonata Borgogna che in quelli che arrivano dalla “globalizzata” Australia.
Insomma, enologia e viticoltura del Bel Paese sembrano mancare di equilibrio, una caratteristica fondamentale, invece, sia in cantina che nel vigneto, qualunque sia la filosofia produttiva che si voglia abbracciare.
Franco Pallini

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