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Perché abbiamo postato così tante foto di cibo nel lockdown? È l’era del “food porn media”

Dalle dirette Instagram al gastro-nazionalismo, i sociologi Luisa Stagi e Sebastiano Benasso firmano il saggio “Aggiungi un selfie a tavola”

Perché abbiamo postato così tante foto di pane durante il lockdown? Perché i politici scattano selfie e organizzano dirette Instagram davanti al cibo? Perché i video di persone che mangiano alimenti crudi con le mani, facendo molto rumore, hanno milioni di visualizzazioni su YouTube? Perché è stato istituito il #Carbonaraday? A queste (e a tante altre) domande hanno provato a rispondere i sociologi Luisa Stagi e Sebastiano Benasso nel saggio “Aggiungi un selfie a tavola - Il cibo nell’era dei Food Porn Media” (per Egea, la Casa editrice dell’Università Bocconi, ndr), convinti che, proprio il concetto di “food porn media” può aiutare a comprendere un fenomeno culturale che è al tempo stesso oggetto, mezzo e messaggio.
Dai libri di ricette alle rubriche culinarie nei magazine generalisti, dalle riviste specializzate alle trasmissioni televisive, dai food blog alle videoricette veloci di Instagram, il cibo è ormai al centro di un processo di ri-mediazione continuo. Durante la scrittura del volume (Egea Editore, pp. 176, prezzo di copertina 18,00 €), ad esempio, l’hashtag #foodporn aveva raggiunto su Instagram 235.432.817 post, mentre l’hashtag #food era al quarto posto come popolarità assoluta nei contenuti.
I food porn media prendono forma e significato in una società digitalizzata nella quale le pratiche alimentari e i dispositivi tecnologici hanno un valore centrale. Senza i dispositivi mobili e le piattaforme social, infatti, non sarebbe possibile la costruzione di questa meta-narrazione caratterizzata da una deriva estetizzante che ha trasformato il discorso intorno a ciò che mangiamo e la rappresentazione delle pietanze in un linguaggio a sé stante dotato di una sua grammatica, significativo e riconoscibile. Riverberando su una pluralità di canali mediali, il discorso sul cibo spesso trascende la valutazione delle sue componenti materiali (bontà, freschezza, capacità nutrizionale), facendosi portatore dei valori culturali dominanti.
La pornografia alimentare, infatti, si sviluppa in una società dove la dieta ha assunto un valore politico e nella quale il corpo magro è indice di capacità di controllo, di buone abitudini di vita e quindi di buona cittadinanza. Il food porn, cioè la proliferazione dei discorsi intorno al cibo e la circolazione di immagini di alimenti proibiti, nasce quindi come una forma di carnevalesco, uno spazio di sospensione simbolica delle norme dietetiche in un contesto sociale in cui vige una morale rigidissima intorno ai confini corporei. La gastro-pornografia, tuttavia, è in grado non solo di appagare simbolicamente un desiderio represso, ma anche di veicolare significati politici, identitari e comunitari.
Nell’epoca in cui tutto è potenzialmente visualizzabile e solo ciò che riesce a risultare visibile diventa significativo - e quindi politico - il cibo si sta dimostrando una delle forme di comunicazione più efficaci, soprattutto se utilizzato per rinforzare le costruzioni culturali dell’appartenenza, delle radici e della tradizione. Una tendenza che risuona, in Italia e all’estero, nel discorso “gastro-nazionalista”, nel quale il messaggio politico trova nei riferimenti al cibo una grammatica che ambisce a rendersi universale e comprensibile anche dalle persone meno competenti e/o interessate al dibattito espresso nelle sue forme classiche.
Secondo Stagi e Benasso, docenti di Sociologia generale e del turismo all’Università di Genova, e tuttavia, la “gastromania” odierna non si esaurisce nell’appagamento estetico o in una forzata connotazione politica: con il proliferare di immagini di pane fatto in casa condivise sui social e i tentativi di convivialità digitale delle cene in videoconferenza, i mesi del primo lockdown hanno riportato al centro della vita pubblica e privata un desiderio di comunità in aperto contrasto con l’individualismo contemporaneo. Durante il periodo più duro dell’emergenza Covid-19 il cibo è diventato simbolo della volontà di ricostruzione comunitaria a partire da azioni di solidarietà (con numerose iniziative di raccolta di generi alimentari per chi si trovasse in difficoltà) mentre allo stesso tempo i consumi degli italiani si sono orientati maggiormente verso prodotti locali e rispettosi dell’ambiente. Allo stesso tempo, la questione del cibo come componente fondamentale della nostra cultura è stata richiamata, in particolare nelle prime fasi della pandemia, come strumento simbolico di distinzione tra un “noi” e un “loro” a fronte della comune esposizione al rischio.
Con e attraverso il cibo dunque si parla di sé, dei propri posizionamenti identitari, si costruiscono simbolicamente comunità, si fa politica e attraverso la dimensione rituale si scongiurano pericoli e si rafforzano legami.

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