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E se i “wine movies” diventassero una nuova tendenza cinematografica?
di Bernardo Lapini

Quali potrebbero essere le conseguenze di questo vero e proprio nuovo genere cinematografico sul mondo del vino? Quali implicazioni potrebbero nascere in rapporto alla stessa comunicazione del vino? Sono queste alcune delle domande, che due film, distanti per genere, ma vicinissimi per contenuti, inevitabilmente suggeriscono e che potrebbero diventare il tema “caldo” di una vivace discussione per l’intero settore vitivinicolo. Tant’è che già cominciano ad arrivare idee ed indicazioni dal mondo del vino di casa nostra come quelle di Gianni Zonin, che lancia l’idea di una risposta del cinema italiano con un film ambientato nelle nostre zone viticole.

Già, perché ormai attorno al vino e al suo mondo, l’interesse si fa sempre più forte e anche per il cinema sembra arrivato il momento di occuparsi seriamente di “wine stories”. Sono già un ricordo lontano le bottiglie di Dom Pérignon in mano all’agente 007, semplici spot pubblicitari, trasposizioni di uno stile di vita irraggiungibile, oppure le rarefatte ed evocative atmosfere di “Io ballo da sola”, dove i vigneti chiantigiani facevano soltanto da sfondo alle vicende dei protagonisti.

Adesso, il cinema sembra aver preso sul serio il vino, facendone il protagonista assoluto della scena. Anzi, la finzione artistica è come se avesse individuato nel vino un “narratore” universale delle vicende umane, capace di raccontare sia la realtà spicciola e concreta, sia i nessi più profondi della società moderna, rivelati in una sorta di grande metafora enoica. Da una parte, il vino interpreta l’unico depositario della cultura occidentale, e, in questo senso, svela lo scontro contraddittorio generato dalla globalizzazione - almeno stando alle convinzioni di Jonathan Nossiter, autore di “Mondovino” - dall’altra, riesce a tradurre immediatamente sentimenti e umori dei protagonisti umani di “Sideways” a tal punto da creare un nuovo flusso della coscienza: il racconto “eno-esistenziale“.

Il fluviale ma trascinante documentario presentato al 57 Festival di Cannes “Mondovino” di Jonathan Nossiter - nelle sale italiane a primavera ed acquistato dalle reti di mezza Europa e quindi successivamente disponibile per il piccolo schermo - è la storia delle persone che ruotano intorno al vino al mondo d’oggi, cioè nell’era della globalizzazione, in cui l’autore - americano ma cresciuto in Europa ed esperto sommeliers - con l’ausilio di una telecamera digitale, capace di stigmatizzare anche i minimi particolari, inchioda i protagonisti con intelligenza ed ironia.

Facendo parlare tutti, Nossiter disegna un affresco irriverente della globalizzazione dell’industria vinicola, delle politiche agricole e commerciali, del livellamento della produzione, vera e propria omologazione, ma anche dell’eccezione culturale e della tutela della tradizione. Dalla California all’Argentina, dalla Borgogna all’Italia, dal Brasile alla Sardegna, si intrecciano le storie, le fatiche, le lotte per preservare pochi acri di terra, le rivalità fra famiglie, i conflitti generazionali, sostenuti da personaggi accomunati dall’amore per la produzione del vino, che in precedenza non aveva mai messo in gioco tanto denaro, tante scommesse, tanta gloria.

Il documentario rende anche un bel servizio allo spettatore ignaro degli inquietanti fenomeni, quali il fatto che il prezzo di un vino sul mercato statunitense, e anche mondiale, dipende dalla recensione di un unico uomo, il critico Robert Parker, o che ormai tutte le grandi case di successo si rivolgano alle consulenze enologiche di un unico tecnico, il francese Michel Rolland.

“Sideways” diretto di Alexander Payne - nelle sale italiane dal 18 febbraio - è invece un piccolo film con attori quasi sconosciuti che parla per la prima volta di vino in maniera rigorosa, citando vitigni, annate ed etichette. E’ la storia on the road di due amici completamente diversi l’uno dall'altro, uniti però dalle “affinità elettive” tra la psicologia umana e i caratteri organolettici del vino.

Solo uno dei due protagonisti in realtà possiede una particolare sensibilità per i vini: è Miles, insegnante e scrittore fallito, piantato dalla moglie di cui è ancora innamorato. Si sente un Pinot, uno inizialmente incompreso ma di grande valore, una di quelle persone che sembrano destinate a percorrere solo quelle strade secondarie che danno il titolo alla pellicola. All’altro amico, Jack, attore di piccolo calibro e sciupafemmine, dei vini importa ben poco.

La storia procede dunque sul confronto-scontro tra i due: Miles prepara come regalo di nozze al vecchio amico Jack un viaggio per i vigneti californiani che dovrebbe concludersi con il giorno del matrimonio di Jack. Quest’ultimo vuole godersi gli ultimi giorni di libertà, prima del matrimonio; Miles ricerca il vino dal sapore perfetto. Jack è disposto a bere anche il mediocre Merlot, che subisce in questo film l’aggressione più diretta e pubblicizzata della storia. Ma la sfida principale del film è tra Cabernet e Pinot, “quest’ultimo è il re dei vini, una vigna dura da coltivare” filosofeggia Miles “molto sensibile, delicata. Non è una vecchia pellaccia come il Cabernet, che può crescere dappertutto e dà ottime uve anche se trascurata. Il Pinot richiede cure e attenzioni costanti”.

Descrizione che è la radiografia dei protagonisti, il Miles-Pinot, con le stimmate della sensibilità, il Jack-Cabernet, con le cicatrici da pellaccia, il tipo che degusta vino e donne e chiede incauto: “Pinot nero? Ma allora perché è bianco?”. E’, dunque, il vino a fare da armonioso collante tra l’amarezza e l’umorismo grottesco, i due registri tra i quali la storia si dipana, trasformandosi in metafora dell'invito a godere fino in fondo tutti i momenti della vita, quelli positivi e quelli meno piacevoli.

Naturalmente nel film, che ha già avuto sette candidature ai Golden Globe, quattro ai premi del sindacato attori americani e cinque riconoscimenti dai critici Usa, si beve molto. Si comincia con uno spumante a base di Pinot nero californiano (Byron del '92) e si finisce con uno Chateau Cheval Blanc del ‘61, nientemeno che un Bordeaux St. Emilion Grand Cru. Ma c’è spazio anche per un grande italiano: un Sassicaia dell’88, definito “bottiglia decisiva” dall’attraente sommelier di cui il depresso Miles finirà per innamorarsi.

L’inaspettato successo di “Sideways” ha messo in ombra la supremazia vinicola della blasonata Napa Valley, rendendo famosi i luoghi in cui è stato girato: Santa Ynez Valley, Buellton, la comunità di artisti di Los Olivos, Lompoc, la Purisma Mission e il ristorante “Hitching Post”, diventati meta di veri e propri pellegrinaggi. Ma agli americani è piaciuto anche il fatto che il film racconti, la vita, gli amori comuni e il fallimento, cioè quel che capita a ciascuno di noi di questi tempi, quando smettiamo i panni imposti del supereroe. Tutto questo, mentre il documentario “Mondovino” racconta della resistenza dei piccoli viticoltori, attaccati con l’anima e con i denti alla tradizione dei loro luoghi e alla storia organolettica dei loro vini, contro l’invasione del brand e dei colossi globalizzati del vino di gusto internazionale. Pura coincidenza?

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