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SLOW FISH 2019

Fare rete, per dichiarare guerra alla plastica e al cambiamento climatico: Slow Fish tira le somme

La kermesse by Slow Food di scena a Genova, ha dato tanti spunti sulla condizione dei mari. Ed una soluzione: cambiare le abitudini

La riscoperta dell’importanza di fare rete, la lotta alla plastica, l’impegno quotidiano per salvaguardare le specie ittiche nei nostri mari, il peso sociale delle scelte industriali riguardanti la pesca: a Slow Fish 2019, l’edizione appena conclusa della kermesse firmata Slow Food dedicata a “Il mare, bene comune”, di scena nei giorni scorsi a Genova, è stata epicentro del discorso intorno al vasto mondo che è il mare, per millenni risorsa primaria per la sopravvivenza dell’uomo, e che oggi è in serio pericolo. E in serio pericolo sono tutti gli esseri viventi che ci vivono e dal quale dipendono. Proprio questo il focus di Slow Fish, con sempre l’obiettivo principale del confronto e della soluzione: non solo il porre problemi quindi, ma trovare il modo di affrontarli, con la cooperazione. Partendo proprio da chi tutti i giorni lavora senza sosta per difenderlo e promuoverlo: il pescatore. Secondo il General fisheries commission for the Mediterranean (Gfcm) e la Fao, la pesca nel Mediterraneo e nel Mar Nero produce un reddito annuo stimato di 2,8 miliardi di dollari e impiega direttamente poco meno di 250.000 persone. Uomini, donne, giovani che spesso portano avanti una tradizione di famiglia nonostante le difficoltà fisiche e burocratiche. Pescatori che difendono gli ecosistemi, lottano contro i cambiamenti climatici e l’inquinamento delle acque, promuovono il turismo sostenibile nelle loro terre. Uomini e donne, sì: il ruolo delle donne nella pesca è spesso sottovalutato, in quanto questa è solitamente percepita come un’attività maschile; tuttavia, le donne pescatrici, raccoglitrici e trasformatrici svolgono un ruolo cruciale in molte comunità del mondo. Spesso sono responsabili della preparazione del pesce prima di andare sul mercato e diventano persino pescatrici, sfidando i tradizionali ruoli di genere. A Slow Fish tre storie al femminile hanno avuto i riflettori puntati, come simbolo di superamento di certi stereotipi di genere. Tutti, ad ogni modo, pescatori, che portano avanti un mestiere fondamentale e secolare, ma che come abbiamo accennato, hanno sempre più un ruolo fondamentale nel mantenere sani e puliti i nostri mari. Aiutati adesso, come viene sottolineato proprio a Slow Fish, dal decreto Salvamare, recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri che consentirà di portare a terra i rifiuti plastici ritrovati in mare: finora infatti i pescatori erano costretti a ributtarli in mare perché altrimenti avrebbero compiuto il reato di trasporto illecito di rifiuti, sarebbero stati considerati produttori di rifiuti e avrebbero dovuto anche sostenere i costi di smaltimento. Una norma, questa, che mette in atto a livello nazionale le azioni pilota del progetto Interreg Italia-Francia PRISMA-MED (Piano RIfiuti e Scarti in Mare di pesca, acquacoltura e diporto nel Mediterraneo), realizzato con la collaborazione di diverse istituzioni tra Liguria, Toscana, Sardegna e Corsica.
Ma, purtroppo, non sono solo i rifiuti e le microplastiche i nemici del mare: a far tremare il delicato equilibrio che tiene in vita l’immenso ecosistema che ci abita è il cambiamento climatico. A Slow Fish ne ha parlato, tra gli altri, Gabriele Volpato, dell’Università di Scienze Gastronomiche, che ha presentato la complessa relazione tra pesca e cambiamenti climatici. L’ecosistema marino infatti sta affrontando una raffica di minacce: basti pensare che gli oceani assorbono circa un terzo delle nostre emissioni di anidride carbonica. Questo fa sì che si riscaldino e, come sottolinea Volpato, i pesci migrano alla ricerca di acque più fresche. L’effetto di questo cambiamento nelle loro rotte migratorie ha un impatto su tutte le loro interazioni ecologiche, sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici forniti dalla natura. “Le comunità umane dipendono da questi servizi ecosistemici - ha spiegato Volpato - per la loro sopravvivenza: grazie alla loro produzione di biomassa, alla loro capacità di sequestrare il biossido di carbonio e al fatto che proteggono le coste dall’erosione”. Ma ciò che rende ancora più tragica la perdita della biodiversità marina è quanto poco ne sappiamo: ben il 95% degli ambienti di profondità resta inesplorato e gli scienziati stimano che ci siano centinaia di migliaia di specie ancora da catalogare. Ad ogni modo, il monitoraggio di 70 specie diverse nel Nord Atlantico ha rivelato che oltre l’80% di esse si è spostato più a nord o in acque più profonde negli ultimi 50 anni, con conseguenze per l’intero ecosistema, con effetti anche per i pescatori, che pescano più lontano dal porto e più in profondità al fine di soddisfare la domanda sempre crescente: i costi per la pesca crescono, facendo aumentare anche i prezzi del pesce.
Una situazione sicuramente preoccupante, ma come detto a Slow Fish fondamentale è parlare delle soluzioni. Quindi, cosa fare? Come contribuire a migliorare la condizione dei nostri mari, e preservarne la ricchezza? Ciò che è emerso dalla kermesse genovese, è principalmente che affinché i mari continuino a essere riserve di cibo, bisogna decisamente cambiare le nostre abitudini: pescare meno e meglio, coltivare alghe e più molluschi. Insomma, un vero salto culturale che coinvolge pescatori e allevatori, cuochi e consumatori. “Per riuscire ad affrontare in modo sostenibile l’aumento della popolazione mondiale mantenendo un mare ancora ricco - commenta il Comitato scientifico di Slow Fish - dobbiamo puntare alla parte inferiore della catena alimentare, evitando quindi i pesci che si trovano all’apice, come tonno o pesce spada, che tra l’altro contengono un’elevata quantità di contaminanti persistenti, a favore di bivalvi, crostacei, plancton e alghe, potenzialmente molto abbondanti”.

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