Parte della storia italiana e delle sue genti, il cibo ed il vino del Belpaese, che nelle sue mille espressioni nascono quasi sempre “dal popolo”, sono elementi importanti dell’identità degli italiani, capaci di rappresentare al meglio il Belpaese nel mondo. E raccontare la complessità del nostro patrimonio enogastronomico non è un problema, ma un valore, a patto di non complicare i messaggi più del necessario. È il pensiero, a WineNews, di Beppe Severgnini, nome di punta del giornalismo italiano, firma del Corriere della Sera e dell’International New York Times e autore di diversi libri che analizzano “l’essere italiani”, da “Italiani si diventa” a “Italiani si rimane”, nelle sue evoluzioni, guardando a media, stili di vita, ma anche al piatto ed al calice.
“Cibo e vino rappresentano una parte importante della nostra identità - dice Severgnini, da Collisioni, a Barolo -non è un luogo comune. Sono importanti, sono un modo di essere italiani. A differenza degli altri Paesi, come la Francia, dove le tradizioni gastronomiche sono nate nelle corti per poi scendere tra la gente, i prodotti italiani quasi sempre sono partiti dal basso: sono “bottom-up”, e questa è la loro vera forza. Il cibo meraviglioso, così come il vino, e ogni loro declinazione, se si va a ritroso, ha le sue radici nella tradizione “popolare”, che se non viene abusata è una parola bellissima. Vino e cibo italiani sono prodotti popolari, che raccontano perfettamente il popolo italiano, che purtroppo fa anche cose meno intelligenti.Ma cibo e vino sono proprio formidabili, l’ho scritto in tanti libri e detto in tanti Paesi del mondo”.
E, a proposito di libri, il cibo ed il vino avevano spazio in “Italiani si diventa”, e ce l’hanno anche nell’ultima pubblicazione di Severgnini, “Italiani si rimane”. “Che è stato tradotto in 15 lingue, è diventato un best seller in Usa e Germania, e più volte mi sono trovato a spiegare queste cose. Io non ho nessun merito - dice Severgnini - sono un osservatore, un italiano innamorato dell’Italia, anche se giro il mondo, e ne sono orgoglioso. Dobbiamo stare attenti, però, a che lo spettacolo corrisponda al contenuto: vedo alcune derive, anche televisive, di questo mondo, che sono rischiose. La forma deve sempre rispondere al contenuto: il vino devi raccontarlo bene ma deve essere buono davvero. Il cibo deve essere coinvolgente, divertente, ma dietro ci deve essere il lavoro. Secondo me comincia ad accadere quello che è accaduto in altri campi: mi chiedo come certi chef possano lavorare, studiare, far crescere degli allievi se stanno sempre in televisione. È come uno scrittore che passa il tempo a Collisioni: qui è meraviglioso, ma ogni tanto uno dovrà anche chiudersi da qualche parte a scrivere”.
Certo viene da chiedere ad uno dei maestri della comunicazione di oggi, se chi racconta il vino, il cibo, i territori e le loro storie, lo stia facendo bene, o se ci sia qualcosa da rivedere, da suggerire.
“Io penso che siamo bravi, ma dovremmo lavorare di più sull’estero, raffinare il messaggio e forse semplificarlo. Nella pubblicazione per i 90 del “Corriere Vinicolo”, per esempio, hanno riproposto un pezzo che avevo scritto, in cui mi chiedevo perchè non si riuscisse a trovare un nome comune tra Franciacorta, Trentodoc e altri spumanti per definire un metodo, e siamo ricorsi a Champenoise, che è una parodia dello Champagne, e poi ovviamente abbiamo dovuto smettere di usarlo. È un problema, perchè anche se alcuni marchi sono fortissimi, come Ferrari, che conosco anche per la mia amicizia con la famiglia Lunelli, è l’unione fa la forza. E se vai con tanti marchi diversi, poi arriva un Prosecco, che forse non ha la stessa qualità di altri spumanti, ma un nome unico. È diventato “uno Champagne che costa meno”, secondo tanti nel mondo, ed il mercato è spaventoso. È stata una piccola opportunità perduta: penso che i volumi di Berlucchi, Ca’ del Bosco, Ferrari, per citare alcuni dei marchi migliori in assoluto, potrebbero essere migliori. All’estero chiedono “a glass of Champagne”, o “a Prosecco, please”, difficile che si senta chiedere altro.Se si vuole sfondare a Philadelphia o a Mumbai, c’è da lavorare sul marketing”. Quindi, da un lato, semplicità, ma anche diversità, perchè in Italia si cerca di valorizzare la biodiverstià, i tanti vitigni autoctoni e così via. “Semplicità e complessità non sono due parole che si contraddicono. Il contrario di semplicità - spiega Severgnini - è complicazione, che va evitata a tutti i costi. La complessità invece per fortuna esiste: pensiamo solo al Barolo, è un mondo che non si finisce mai di scoprire ed esplorare. Evviva la complessità, ma se nel raccontarla la complichiamo, facciamo un autogol”.
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