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I GRANDI VINI SONO QUELLI CHE PIÙ INVECCHIANO E PIÙ SONO BUONI. MA VALE ANCHE PER LA VIGNA? SE NE È PARLATO OGGI NELLA “RIFLESSIONE SUL DEPERIMENTO PRECOCE DEI VIGNETI ITALIANI” A BELLAVISTA ... ECCO IL PARERE DI ESPERTI, SCIENZA E MUGNAI

Che i grandi vini siano quelli che più invecchiano e più sono buoni, ormai, è convinzione comune. Ma che anche la vigna, più è anziana e meglio è, è una consapevolezza che in Italia si è fatta strada solo recentemente. Si è parlato anche di questo al convegno “Riflessione sul deperimento precoce dei vigneti italiani”, di scena oggi a Bellavista, la cantina in Franciacorta del gruppo Terra Moretti, in un appuntamento fortemente voluto dall’enologo e direttore della cantina, Mattia Vezzola. Tra gli esperti intervenuti anche il professor Attilio Scienza, docente di vitivinicoltura all’Università di Milano, al quale abbiamo chiesto:
Cosa rappresenta, per un’azienda che vuol fare qualità, un vecchio vigneto?
“Ci sono aspetti estetici e qualitativi. Quelli estetici - spiega a WineNews - testimoniano che un’azienda che ha un vecchio vigneto sa trattarlo bene, sa potarlo, concimarlo, sa evitare che la vigna venga forzata, e quindi in qualche modo sacrificata, alla produzione. E poi un vecchio vigneto richiama sempre l’attenzione del visitatore, è una specie di reliquia da onorare e conservare, e non è trascurabile, nella comunicazione di un’azienda, disporre di vigneti molto vecchi. Ma non sono frequenti, ci sono delle piante isolate, magari, ma trovare vigneti di 40-50 anni da noi, in Italia, è molto difficile. L’aspetto qualitativo, poi, è molto importante - prosegue Scienza - lo dimostrano anche i francesi, più di noi, che ne fanno oggetto di selezione, e vendono i vini con la dizione “vecchio vigneto”, che all’interno dell’azienda è l’espressione maggiore della qualità. Questo perché le viti vecchie sono viti in equilibrio, piante che hanno rinunciato, in parte allo sviluppo. Hanno una maggiore possibilità di accedere all’azoto, quindi i grappoli sono più piccoli, e di solito hanno un rapporto foglie/uva favorevole alla qualità, con più foglie rispetto al frutto. Fanno meno uva, in verità, ma ha delle caratteristiche particolari, con bucce molto resistenti e cosi via. Devo dire che pensare alla materia prima di una pianta vecchia è come dire che “gallina vecchia fa buon brodo”, per usare un paragone un po’ irriverente. Poi ci sono altri aspetti, come la biodiversità. Se uno fa un vigneto moderno, usa dei cloni e un materiale molto omogeneo dal punto di vista genetico. Se io voglio fare una selezione, e andare a vedere come era la varietà nel passato, vado a cercare vigneti di 40-60 anni, dove trovo ancora delle espressioni di biodiversità intravarietali molto interessanti, che potranno essere utilizzate o ri-utilizzate in futuro, perché la nostra vita va avanti, le difficoltà che si frappongono tra noi e la pianta sono diverse, e può darsi che in quei vigneti ci siano ancora piante capaci di in tollerare meglio parassiti e carenze. C’è una biodiversità che può essere utilizzata per migliorare l’adattamento delle varietà agli ambienti e ai climi”.
Ma come si fa a costruire un vigneto che sia longevo e in salute?
Risponde Laura Mugnai, docente di patologia vegetale alla Facoltà di Agraria dell’Università di Firenze, tra i più autorevoli esperti delle malattie del legno: “avere un vigneto vecchio vuol dire iniziare a curarlo e allevarlo nel modo giusto dai primi anni di vita. Non è questione soltanto di approccio patologico, ma di cultura del vigneto. Deve essere gestito con attenzione alle esigenze della pianta e non soltanto a quelle della meccanizzazione, o ad aspetti pratici e gestionali. Vuol dire mettere la pianta davanti a tutto. E bisogna averlo fatto per forza dall’inizio, non si può pensare di prendere un vigneto di 20 anni, costruito con altre logiche, e farlo arrivare a 40, perché quello che condiziona di più la vitalità della pianta è la condizione dell’apparato radicale e del fusto, quindi quello che c’è nel tronco, perché quando poi si pota si leva tutta la parte verde e rimane solo il tronco, e ci deve essere una grande attenzione fin dall’inizio per tenerlo pulito, con la lavorazione giusta che faccia sviluppare un apparato radicale in equilibrio con la parte vegetativa”.
Quanto è diffuso, in Italia, questo tipo di approccio?
“È una cosa recente, e anche tutta l’attenzione che è stata data alle malattie del legno ha aiutato a rendersi conto che tutte le cure che si fanno nei primi anni incidono, poi, su tutta la vita della pianta. Ora sono molti i viticoltori che hanno questa attenzione, anche se tanti si trovano ormai ad avere vigneti di 15 anni che sono un po’ compromessi, e ormai portarli a 30-40 è un po’ difficile, perché prima non c’era la consapevolezza che quello che si fa all’inizio incide così tanto. C’è stato un periodo di grandi impianti, in tempi rapidi e su grandi estensioni, e con materiale non perfettamente controllato, e non ci si è resi conto di quanto questo avrebbe inciso. Ora questa consapevolezza c’è. Vedo tanti viticoltori giovani e meno giovani che hanno un’attenzione molto maggiore a queste prima fasi che danno il “la” al vigneto”.

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