Parafrasando un motivetto del “Quartetto Cetra” che andava di moda nell’Italia del primo sboom viene da chiedersi: “Ma cos’è questa crisi?”. Una cosa è sicura, non è crisi né di appeal né di immagine: il vino resta uno dei primi desideri degli italiani, che però vivono una strana situazione: “vorrei ma non posso”. Resta, dunque, intatta l’aspirazione alla domanda, ma i volumi decrescono anche se negli ultimi mesi si è avuta una leggerissima inversione di tendenza. Di questo si parlerà anche al Salone del Vino, dal 14 al 17 novembre, a Torino (la rassegna del Lingotto resta un osservatorio privilegiato per capire gli andamenti del mercato e gli orientamenti di gusto).
Indagare la crisi del vino significa affrontare due aspetti: il primo analizzare il mutamento strutturale della domanda, il secondo capire se l’offerta si è adeguata. A parere degli enotecari, la crisi c’è nella fascia bassa di mercato: insomma, è ancora valido lo slogan si beve meno, ma si beve meglio. In enoteca entrano meno persone, ma escono bottiglie di prezzo più elevato. Chi soffre nella distribuzione tradizionale sono i vini di fascia bassa. Ma a spiegare questo fenomeno sta il fatto che la grande distribuzione è ormai diventata il principale canale per le bottiglie di minor prezzo e i supermercati drenano clienti ai negozi tradizionali. C’è poi un secondo aspetto che va tenuto in conto: i consumatori più avvertiti non sono più disposti a pagare molto per bottiglie senza storia. E questo è un segnale preciso: la bolla speculativa dei vini che hanno ballato una sola estate si è esaurita e tornano a contare moltissimo i marchi storici ed affermati. Il terzo aspetto è che la domanda di vino soffre di strabismo: da una parte, guarda ai vini di basso prezzo per il consumo quotidiano, dall’altra non rinuncia alla bottiglia di pregio e di prestigio (a conferma di ciò sta il crescente peso sull’importazione dello Champagne).
La fascia media è quella che viene penalizzata da questo strabismo. Ma anche il concetto di “medietà” deve essere rivisto: vi sono denominazioni che sono percepite, comunque, troppo care e altre che in assoluto costano di più che sono accettate dal consumatore come equilibrate nel rapporto qualità-prezzo, semplicemente perché hanno un’immagine migliore o perché hanno ritoccato i listini con maggiore gradualità. In particolare, sono i vini toscani, Chianti in primis, a scontare questa diffidenza del consumatore sulla percezione di rincaro. Al contrario il Barolo, che pure spunta quotazione mediamente più elevate del Chianti, non viene ritenuto caro, semmai costoso. E in questo caso il pregio fa premio sul prezzo. Fenomeno analogo riguarda l’Amarone, mentre continuano a godere dei favori dei consumatori, per la percezione del rapporto prezzo-qualità, i vini del Sud ed in genere gli spumanti che sfruttano il trascinamento dello Champagne. Anche le temute lusinghe dei vini del Nuovo Mondo, stando almeno alle impressioni della rete distributiva tradizionale, non hanno appetito più di tanto i consumatori italiani, che semmai si accostano a queste bottiglie più per l’effetto novità/curiosità che per l’effetto prezzo.
Ben diversa è, invece, la situazione vista dalla parte della grande distribuzione. C’è una contrazione di consumo che riguarda ancora una volta le bottiglie di fascia media. Tengono i vini quotidiani, vengono penalizzati i grandi formati, si difendono i vini di fascia inferiore insidiati, però, in questo settore distributivo dai vini del Nuovo Mondo, c’è grande selettività sulle bottiglie di fascia alta che conferma la maggiore attenzione del consumatore verso la storia della bottiglia, verso le qualità, anche dei valori immateriali, che il vino esprime. Tuttavia, a vedere i dati Ismea, c’è di che consolarsi: a fronte di una perdita generalizzata del segmento bevande alcoliche (con la birra che ha subito un meno 10% dei consumi), il vino ha perso meno dell’1%, ritoccando però i listini del 2,3% anche nell’ultimo periodo. Dunque, in valore, il comparto vino si è apprezzato.
Questo strabismo del mercato, tuttavia, una domanda che si fa via via più selettiva sul mercato interno ed una oggettiva difficoltà sui mercati terzi (in particolare Germania, Gran Bretagna e in parte Stati Uniti, cioè le principali piazze per il vino “made in Italy”) portano le cantine a scegliere scorciatoie commerciali. Sui mercati esteri ormai è d’uso la pratica dello sconto o del ristorno per mantenere i listini nominalmente, ma praticando, comunque, condizioni favorevoli alla distribuzione. Si va verso il “tre per due” anche se, è opinione persino della grande distribuzione, questa non sarebbe la politica di pricing migliore. A questa pratica degli sconti si accompagna un altro fenomeno: una volta le cantine tendevano a centellinare le bottiglie di maggior pregio per vendere anche i vini di seconda e terza fascia, adesso la distribuzione dei vini top è praticamente separata da quella delle altre bottiglie. In più, si cominciano a ritoccare al ribasso i listini. Vi sono casi di primarie cantine che, fissato un prezzo a luglio, alle consegne di ottobre sono arrivate a fare sconti che hanno toccato il 20% per cento su vini ceduti franco cantina al di sotto dei 3 euro. Il fenomeno si spiega perché molti piccoli produttori che vendevano il 70% dei loro vini sui mercati esteri adesso sono tornati a guardare al mercato interno e praticano prezzi quasi in dumping sulle cantine leader, al riparo come sono di listini praticamente mai pubblicati in precedenza in Italia.
E’ su queste coordinate che si apre il Salone del Vino di Torino, che ha messo al centro dei suoi dibattiti proprio la necessità di ripensare il marketing del vino agendo sulla formula delle “4P” cara a Mc Carty, uno dei guru americani dell’arte di vendere: il prezzo, il prodotto, il punto vendita e il posizionamento. Esattamente tutti i problemi aperti del vino italiano, finora affrontati empiricamente, ma che adesso hanno bisogno di una vera strategia.
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