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Il mio personalissimo sunto del 2002 nel bicchiere: ovvero cosa mi è rimasto in testa dei tanti - parecchie centinaia - calici degustati
di Paul de Cellar

Anno nuovo, vita nuova, si dice. Ora che nell’anno nuovo si è entrati da un mesetto, e che dunque il sospetto di retorica si è quanto meno attenuato, mi pare divertente applicare, una tantum, questo luogo comune. Come ? Beh, provando per una volta a essere buono. A non parlare di quello che non va, nel mondo del vino. Ma delle soddisfazioni straordinarie che regala a chi, per passione e professione, vi sta dentro. Insomma: sto per regalarvi il mio personalissimo sunto del 2002 nel bicchiere.
Da questo punto in avanti, chi non ne potesse più (e magari, senza avere tutti i torti) di classifiche, hit parade, premi e premioni, può in un certo senso sentirsi dispensato dal leggere. Perché (anno nuovo, etc.) sto per fare quello che non ho mai fatto. Cioè, sto per infliggervi, tra tante hit parade, anche la mia ...
Attenzione, però: non quella dei dieci vini più buoni usciti, o dei cinque rossi, o della cantina top, e via discorrendo. Molto semplicemente, e per quel che può valere, vorrei raccontare cosa mi è rimasto in testa dei tanti - parecchie centinaia - calici degustati lo scorso anno. Ho ripreso in mano, perciò, qualche pila di appunti. E ho fatto, con qualche sforzo, la mia selezione. Finendo con lo scoprire delle cose. Prima di arrivare a dettagliare le quali, però, eccovi l’elenco, con qualche rapido commento a margine.

N.B - I vini che seguono, considerateli pure “a pari merito”. Non intendo ragionare di punteggi, appunto, ma solo di impressioni. Questi vini, insomma, hanno tutti lasciato una traccia forte nella mia memoria di degustatore.

1) Trebbiano d’Abruzzo Edoardo Valentini 1988: è stato uno degli ultimi regali del 2002. Una bottiglia straordinaria. Un vino maturo senza cedevolezze, un vino dal fascino immenso. Di Valentini ricordavo con altrettanta gioia e stupore altri due Trebbiano, un ’90 e un ’83. E una verticale, finita poi su una rivista di settore, in cui ci si era spinti indietro, fino agli anni Settanta. Roba di sei-sette anni fa. Risentire adesso la variegata gamma di aromi, dalla nocciola e la liquerizia (lo stecco, non la pasta) fino al miele, ma anche a note ancora fresche di fieno e di frutta gialla, è stata un’emozione. Ho in cantina ancora una bottiglia, di quest’annata, e due ’90. Se mi sopporterete ancora, credo che a fine 2003 ve ne riparlerò.

2)
Vigna L’Apparita ‘88-‘89-’90: ogni tanto, capitano delle piccole grandi fortune. Esempio, un invito a cena nella casa giusta, con la compagnia giusta, e la premessa: guarda, uno di noi porta un’Apparita ’89, e un altro un ’88. Avessi per caso un’altra annata? Claro che sì. Le ho quasi tutte. Ed è questo il momento per verificare (o sacrificare, fate voi) il ’90, a completare la sequenza. Che è didattica e di assoluta soddisfazione. Piena conferma che questo vino raro (un tempo chi non riusciva ad averne lo chiamava con ironia un po’ maligna “Vigna La Sparita”) è davvero degno della fama che ha. Vino di altezza, e di eleganza, niente a che fare con i Merlot “fat”, dalla pinguedine che a volte sfiora l’obesità, che circolano per lo più ora a tutte le latitudini. Un ’90 ampio, ma serio; largo e bevibile, ma pronto a resistere per anni ancora; bellissimo da vedere, lunghissimo da meditare. Un ’89 sottile, come è giusto che sia, rispetto agli altri due, ma non aspro, non puntuto. E fresco. E un ’88 sontuoso, aperto nel pieno della sua bellezza. Soave nella tessitura, setoso, corposo e delicato insieme. Equilibrato, oggi, dopo anni passati ad evolvere per dimostrare quanto, fin dall’impostazione, lo fosse.

3)
Terlano Cantina di Terlano ’81. Un altro di quei miracoli a cui l’enologia italiana contemporanea ci sta disabituando (mentre ci sta abituando a “miracoli” di altro genere, diversi da quelli come una giacca tirata in serie, e ovviamente griffata e costosa, sta ai capolavori di un vecchio, grande sarto). Anche qui, come per le famose giacche che chi sapeva andava a farsi fare a Capalbio dal più grande artigiano italiano, più di un Caraceni, probabilmente, visto che lavorava da solo, con una aiutante casalinga e anziana più di lui, c’è la mano di un grande, caparbio, enologo-artigiano, il signor Stocker. Un bianco da incanto. Complesso (una parola che molti presunti big attuali hanno cancellato dal loro vocabolario, in cambio di “grosso”, “grasso”, “spesso”), finissimo, inusuale nella composizione aromatica. Tipicissimo (anzi, unico).

4) Cabreo Il Borgo ’85. Ecco una sorpresa vera. Non che non si avesse stima dei vini di Ambrogio Folonari. Ma, aperta a notte fonda in un ristorante romano, su istigazione (e con la partecipazione) del ristoratore, questo vino ha lasciato senza parole chi lo degustava. Impressione fallace secondata dall’entusiasmo di una scoperta, e - chissà - dall’ora tarda e da una certa confusione del gusto? Provvida, neppure un mese dopo, una verticale di annate storiche organizzata dall’azienda regala la conferma. Un rosso di finezza enorme, intrigante e quasi commovente per quanto risulta (pur non essendo a base autoctona) radicato al suo territorio. Una bella soluzione per l’equazione a due incognite (terra-uva) da cui nasce il vino veramente grande.

5) Barolo di Monforte Riserva Giacomo Conterno 1947. San Monfortino. Oggi un cult. E un’icona. Anche per costo. L’equivalente di una dozzina di euro odierni, costava invece questo ’47 quando uscì. E’ arrivato a tavola in una veste anonima. Qualcuno, guardando il colore, annusando i primi profumi, ha azzardato: inizio anni Settanta, se non anni Sessanta... Qualcun altro ha subito sterzato: mi sa che siamo prima... Ma quanto prima, l’abbiamo saputo solo dopo. Chi l’ha proposto, l’ha fatto con la sospensione di cuore con cui ogni volta si affronta l’apertura di uno di questi monumenti antichi, mettendolo (e mettendosi) a rischio di perdere, inutilmente, un cimelio in cambio di un bicchiere imbevibile. Nel nostro caso, invece, uno dei bicchieri più memorabili dell’intera carriera di enofilo del sottoscritto. In-cre-di-bi-le!! Commovente... Memorabile.

E qui, si potrebbe far punto. Ma (anno nuovo o no) una considerazione su quanto sopra non so tenermela nella penna. C’è un filo rosso che accomuna questi vini: e merita che venga evidenziato. Sono tutti vini legati a doppio filo con il loro terroir. Sono tutti vini pensati e fatti per durare, evolvendo nel tempo. Sono tutti vini dove l’artefazione degli interventi massicci di cantina quasi non esiste. Sono tutti vini di vigna alta. Sono tutti vini risolutamente italiani. Inconfondibili. Inimitabili. Sono quelli che io, da qualche tempo, chiamo “vini veri”, per distinguerli nettamente dal pret-à-boire di serie (e, per carità, di commendevole fattura) che non solo ci circonda, ma, ad oggi, ci sommerge. E di cui personalmente sono abbastanza stufo. In difesa del “vino vero”, se non altro per riconoscerne la diversità e l’identità, penso sia arrivato il momento di far qualcosa. Fosse solo un circolo di amici appassionati... O qualcosa di più. Ci rifletterò. E, se non siete tra quelli che già da un pezzo hanno abbandonato, disgustati, la lettura, vi garantisco che nel corso del 2003 vi terrò informati...

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