I produttori di vino italiani avevano fino a due anni fa una certezza: i confini nazionali erano impenetrabili alla concorrenza. Un sondaggio del 2004, condotto dal Censis, dimostrava che gli italiani non solo bevevano al 98% vini “made in Italy”, ma che prediligevano sempre le bottiglie regionali. Ora anche questa certezza comincia a vacillare, secondo i dati analizzati da Winenews, uno dei siti più noti del vino sul web. E proprio nel momento in cui, dopo la crisi 2002-2004, l’export delle nostre bottiglie dà robusti segnali di ripresa, segnatamente sui mercati ricchi come quello statunitense dove si è superato il miliardo di euro di fatturato. Proprio il possibile ruolo del vino italiano nel mercato globalizzato sarà uno dei temi centrali del prossimo Vinitaly, (Verona, 6/10 aprile 2006), vetrina enologica internazionale che festeggia i suoi 40 anni.
Risolvere questo interrogativo significa occuparsi di tutto: dalle dimensioni aziendali alla cultura del vino, dai vincoli normativi alle tecniche colturali e di cantina. E proprio di strettissima attualità è la discussione sull’utilizzo dei chips (trucioli) di legno per ottenere l’effetto barrique senza sopportarne i costi. Una questione che coinvolge però anche lo stile del vino. Si possono proporre ai consumatori vini al sapore di legno quando il mercato sembra sempre più orientato verso vini di facile bevibilità, più leggeri e meno alcolici, di più immediata fruibilità?
E’ sempre più urgente - e non solo a fini commerciali - il definire la frontiera del vino in un mondo che si sta globalizzando. Lo scontro sul vino è sia colturale (per la diversa velocità di impianto dei vigneti, per le tecniche, per lo stile e i mezzi di produzione) che culturale (per i diversi significati che vengono attribuiti nei due emisferi enoici al vino: da una parte un valore identitario e quasi etico, dall’altra un valore edonistico e quasi estetico) e forse accanto alla battaglia giocata sul marketing, la promozione e il prezzo sarà necessario ingaggiare anche un confronto sul significato del vino. Oggi scorrendo la geografia del vino si scopre che su 8 milioni di ettari a vigna nel mondo l’Europa ne detiene poco più della metà. E si scopre anche che grazie ai mutati climi ma anche ad artifici come l’irrigazione goccia a goccia, i fertilizzanti, le coltivazioni in serra, i nuovi sistemi di allevamento oggi si riesce a fare vino a latitudini fino a pochi anni fa impensate. E in più vi sono delle differenze normative assai rilevanti: l’Europa ha scelto vincoli rigidissimi (le quote, i diritti di reimpianto, il no assoluto ad additivi nel vino), il Nuovo Mondo la massima libertà (pianta dove, quanto e cosa vuole, utilizzo di acqua, essenze, trucioli di legno, zuccheraggi). L’Europa mantiene l’identità territoriale dei vini (si pensi al sistema delle Denominazioni), il Nuovo Mondo opera su pochi vitigni “omnibus” e rende riconoscibile la sua produzione attraverso le varietà.
Il risultato è che oggi su 290 milioni di ettolitri di vino prodotti nel mondo ci sono 60 milioni di eccedenze (circa il 120% della produzione dell’Italia) tutte concentrate in Europa. Si assiste perciò ad un ridisegno complessivo della geografia planetaria del vino. E si assiste ad una mutazione del gusto che soprattutto nelle fasce basse di prezzo sembra premiare i vini varietali, cioè quelli che arrivano dal Nuovo Mondo. Il mercato è più distratto? La ragione forse è che si è persa l’egemonia culturale del vino da parte della Vecchia Europa. Ci siamo fatti imporre stili di consumo e stili di vino, che vanno di pari passo con gli stili di vita e di vite, dal Nuovo Mondo: enologi che portano tecniche di cantina non consone alla tradizione europea, comunicatori che interpretando il gusto dei loro mercati impongono agli europei di fare i vini come piacciono a quei Paesi, con ciò minando l’identità del vino europeo e in buona sostanza trasformandosi in cavalli di Troia; organizzazioni commerciali che a fronte delle cento referenze delle cantine nostrane preferiscono la semplificazione commerciale dei Paesi del Nuovo Mondo.
Sul fronte del gusto si scontrano, dunque, due concezioni del vino: da una parte chi pensa che il vino sia solo piacere, dall’altra chi da sempre sa che il vino è anche sapere. Ma questo produce una biforcazione del mercato: i vini del Nuovo Mondo sembrano destinati a conquistare le fasce basse e medie del mercato mondiale (non a caso la penetrazione di americani, australiani, sudafricani e cileni è tutta fatta nelle grandi catene e sfruttando come elemento di traino la facilità di approccio al vino e i prezzi bassi), dall’altra i vini della Vecchia Europa sembrano destinati a detenere il primato nelle fasce alte di consumo e in quelle più consapevoli, dove il valore culturale del vino diventa davvero valore aggiunto. Una riprova sono i dati dell’export del vino italiano, incrementatosi quest’anno del 10,7% in valore e del 5,1% in quantità. Il boom del vino italiano in Usa (arrivato ad 1 miliardo di dollari di controvalore), la maggiore penetrazione in Giappone, l’exploit in Russia, l’incremento importante del vino italiano esportato in Francia sono tutti elementi che fanno dire che il vino italiano penetra nelle fasce alte di mercato da dove ha scalzato i francesi, che inseguendo le nuove mode hanno perduto identità.
Ma, dall’altra, c’è un dato da considerare: anche il mercato italiano è diventato più permeabile. E non ai vini francesi, bensì ai vini del Nuovo Mondo. Basti dire che nel biennio 2003-2005 l’import in Italia di vino californiano è passato da 277mila litri a 50 milioni di litri, con una performance che ha portato il vino californiano dallo 0,17% al 29,6% della quota di import di vino straniero in Italia. E sulla stessa scia si muovono australiani, cileni e sudafricani.
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