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Il vino italiano in cerca di “lezioni di marketing”: il “fai da te” nelle tecniche di vendita non paga più. Con la concentrazione della distribuzione è urgente per le cantine imparare a fare marketing. Arriva il micromarketing
di Bernardo Lapini

Una nuova figura si aggira per le cantine: è il wine-promoter. Le aziende vitivinicole hanno capito che la sola promozione non basta più, adesso servono gli esperti di marketing. E nascono così i primi master per imparare a vendere il vino, indispensabili per orientare le scelte produttive e commerciali in un mondo della distribuzione dove la concentrazione dei canali è sempre più forte. Ma ancora una volta si assiste ad una divaricazione degli atteggiamenti: da una parte - soprattutto in Italia - c’è chi si affida al porta a porta, agli sconti, ai messaggi intermediati dai mezzi di comunicazione, e dall’altra c’è chi comincia a organizzare consorzi per l’export, a puntare sulle dimensioni della proposta commerciale, a incrementare l’efficienza dei servizi di vendita e post vendita per convincere i consumatori ad acquistare.

C’è una regola che chi si occupa di marketing manda a memoria alle elementari di questa scienza: è la regola delle “4 p” (prezzo, posizionamento, punto vendita, prodotto) a cui la globalizzazione del mercato e la necessità di farsi vedere per farsi comprare ha imposto un’aggiunta: la quinta “p”, che vuol dire promozione o meglio ancora promo-commercializzazione. Un’altra regola del marketing recita testualmente: non si vende ciò che si produce, ma si produce ciò che si vende. La domanda è: il vino italiano conosce e applica queste regole? La risposta che sinora è venuta - da tutta la Vecchia Europa - è “Il vino ha la sua specificità, non si vende come una saponetta”. Ma siamo proprio sicuri che è ancora così? Proprio da Vinitaly è partita la tendenza a cominciare a ragionare sul marketing applicato al vino. Una fiera, una grande fiera come quella veronese, che è la più importante del mondo, è di per se’ un evento di marketing. Giusto, dunque, interrogarsi proprio in tale sede di quali possono essere le evoluzioni del mercato.

I francesi, che sono stati i primi ad inventare, ormai da tre secoli, le tecniche di vendita del vino, hanno puntato tutto sulla “valorialità” di questo prodotto, aggiungendo per primi a ciò che oggi il linguaggio moderno chiamerebbe una commodity i valori aggiunti immateriali. Il linguaggio di degustazione, il rituale di consumo, la valorizzazione del terroir, la storicità della bevanda sono stati tutti elementi che i francesi hanno nel corso dei secoli aggiunto al vino per incrementarne il valore. Si pensi ad esempio allo Champagne, che è diventato dalla Belle Epoque in poi simbolo di seduzione, di piacere, di trasgressione se si vuole e poi di festa. In fin dei conti a guardare bene per primi i greci con il simposio davano al vino un valore che trascendeva le mere caratteristiche intrinseche del prodotto. Gli italiani hanno imparato relativamente da poco tempo ad utilizzare gli stilemi dei francesi e hanno aggiunto il concetto allargato di territorio. Anzi, hanno fatto di più, confermando il vino come “marcatore territoriale”, di un prodotto che condensa in sé tutte le “valorialità” della civiltà espressa da un determinato areale. Lo testimonia il fermento che attorno all’enoturismo e se si vuole più in generale attorno al turismo rurale si è sviluppato. E abbiamo aggiunto il rapporto cibo-vino.

Qualcosa dice, tuttavia, che siamo rimasti indietro proprio perché non abbiamo adeguato il marketing alla regola delle “4 p” (più una). A rendere possibile questa affermazione è osservare quello che è accaduto nei Paesi del Nuovo Mondo del vino. Per primi hanno iniziato i californiani che hanno costruito il sistema Napa e poi il sistema Sonoma. Lo hanno fatto sia nell’enoturismo (in questo imitatati dai sudafricani che hanno ben il 30% del loro movimento turistico legato al vino), sia nelle politiche commerciali dei loro vini. Hanno studiato i posizionamenti dei singoli prodotti, vi hanno applicato un prezzo secondo il target, hanno cominciato a produrre i vini che il loro mercato chiede, hanno aggredito le reti distributive.

Un sintomo di questo adeguamento del vino al marketing viene proprio dalla massima libertà che i vignaioli del Nuovo Mondo hanno chiesto e ottenuto. Possono piantare e spiantare vigna a loro piacimento e mettono in produzione i vigneti per ottenere i vini che si riescono a vendere (ecco la regola del “si produce ciò che si vende”). Ma hanno fatto di più: hanno diversificato per fasce di prezzo e per tipologie di prodotto le loro linee di produzione cercando di “aggredire” il consumatore con massicce campagne promozionali, ed infine hanno cercato di conquistare la leadership nella comunicazione sul vino. Non è un caso che i media che dettano tendenza a livello mondiale sul vino nascono nei Paesi del Nuovo Mondo. Ed è una contraddizione perché la Vecchia Europa ha ancora la leadership produttiva e qualitativa, eppure non ha abbastanza voce per imporre tendenze sul mercato.

A dire che il marketing del vino nel nostro Paese (ma si potrebbe dire in tutto il resto d’Europa) batte in testa sono proprio questi fattori. Che sono in parte dovuti ad una disattenzione rispetto al marketing e in parte i alla criticità delle dimensioni delle nostre aziende, che non avendo mai fatto sistema non possono aggredire la comunicazione di massa (dunque la promocommercializzazione) su larga scala. Anzi gli insegnamenti di marketing che venivano dai francesi fino a pochi anni fa sostenevano appunto che non avendo le cantine la possibilità (finanziaria) di aggredire la pubblicità il vino doveva continuare a fare notizia per essere comunicato. Ma questo condanna il vino ad una sorta di marginalità comunicativa.

L’affacciarsi, e oggi possiamo dire il prepotente affermarsi, di nuovi canali distributivi come la gdo impone alle aziende vinicole di ripensare le loro strategie di marketing. Magari osservando ciò che avviene nei paesi del Nuovo Mondo. Se prendiamo il caso Australia (dove il vino ha superato il consumo di birra ed è un traguardo storico) ci accorgiamo che gli australiani hanno puntato sul loro mercato interno alla massima bevibilità del vino. Hanno segmentato il mercato per fasce di prezzo e dunque per target, e sulle produzioni di largo consumo hanno spogliato il vino di ritualità e lo hanno rivestito di comunicazione. Tappo a vite, larghissima diffusione, consumo disimpegnato, molto advertising utilizzando massicciamente anche Internet, offerte promozionali, forte riconoscibilità del brand: sono queste le armi che gli australiani hanno usato e che anche gli americani usano.

Per contro gli europei (e segnatamente noi italiani) hanno continuato a lavorare sull’idea del territorio, sulla riconoscibilità della Denominazione, sulla ritualità del vino e non abbiamo incrociato sufficientemente i target con i prezzi, con la distribuzione e con il prezzo. Cosicché si utilizzano le stesse tecniche di vendita sia per i vini di grandissima qualità e di alto prezzo, sia per i vini a maggiore diffusione.

E’ forse giunto il tempo che senza indicare ricette miracolose il vino italiano si interroghi sulla strategia per aggredire il mercato. E tuttavia c’è una novità nel marketing del vino targata Italia: è il cosiddetto micromarketing. Cioè l’esperienza sensoriale praticata direttamente sul punto vendita. Come dire che la vecchia cara degustazione può, se attualizzata, essere un ottimo modo per parlare direttamente con il cliente.

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