Buone notizie dal fronte occidentale. E anche, seppur in misura meno decisiva, da quello orientale. Questo periodo dell'anno, si sa, è quello in cui solitamente si fanno i conti, nel mondo del vino italiano, in concomitanza con la fiera di settore più frequentata e importante. E i conti quest'anno non si annunciano malaccio. Intanto, è confermato il dato relativo al primo semestre del 2001, secondo cui l'export di imbottigliato supera lo sfuso per la prima volta nella storia. Aggiungeteci che (i conti al millimetro sono ancora in corso) l'aumento in valore del nostro vino esportato è quasi triplo rispetto all'aumento in quantità. Un segnale chiarissimo di riposizionamento verso le fasce più alte del mercato, di cui lo stesso spostamento da fuso a imbottigliato non è causa esaustiva.
La verità è che la percezione "globale" del vino italiano è meritatamente cresciuta. E anche in scaffale, nelle enoteche del mondo, e in carta, nei ristoranti del mondo, se ne ha sempre più cognizione. Un bell'applauso dunque (come direbbe il vecchio Mike Fininvest) e avanti così, verso sorti sempre più magnifiche e progressive?
Mi si permetta di eccepire qualcosa. I dati, come insegnano anche questioni ben più pregnanti per la vita del paese tutto, andrebbero letti sempre "oltre" le cifre brute. La filigrana, per quanto riguarda la carta moneta, racconta spesso più della stessa cifra stampata sul biglietto. E per evitare falsi, anche a livello di impressioni e pronostici, è meglio darle una bella occhiata con la lente.
A compito eseguito, dunque, viene fuori che in sostanza l'export di vino italiano è agganciato, meglio, impigliato, su quattro mercati. E che dei quattro, tre, Germania, Inghilterra, Usa, fanno la straparte del leone.
E adesso riflettete. Quali mercati del mondo sono più aperti, in prospettiva futura, a suggestioni "globali" (anche per interesse di bottega) per quanto riguarda il vino? Chi, più degli Usa, oltre a dover sostenere e implementare sempre più la produzione interna, ha facilità e interesse a occuparsi dell'uva che nasce nel cortile di casa, cioè Centro e Sudamerica? E chi più dell'Inghilterra, e segnatamente del mercato londinese, è più permeabile a alle lusinghe del Nuovo Mondo, che, enologicamente parlando, vuol dire Australia, Sudafrica, Nuova Zelanda, tutti paesi che parlano inglese o che comunque sono apparentati da forti legami d'affari al sistema britannico?
Aggiungeteci che la Germania non attraversa certo il periodo più brillante, economicamente parlando, con prospettive a breve non splendide. E che a Est si sta riaprendo tutto un mondo produttivo (Slovenia, Ungheria, Romania) di cui i tedeschi aspirano apertamente ad essere punto di riferimento, anche per il pilotaggio nella Ue.
Mettete poi sul ragù di questo screaning il parmigiano di un altro paio di riflessioni. Primo: non differenziare abbastanza è sempre un errore, perché rende vulnerabili (come sa bene chi gioca in Borsa). Un attimo di flessione del proprio mercato di riferimento vuol dire per un'azienda che si è appena affacciata alla gran ribalta (e ha in piedi speranzosi investimenti) un bel contraccolpo. E ogni riferimento a fatti tipo l'11 settembre è non del tutto casuale.
Secondo appunto: il famoso riposizionamento in valore di vini italiani, visto che supera di gran lunga l'aumento in quantità, dipende ragionevolmente in parte dalla scelta, da parte dei buyers esteri, di vini migliori; ma in parte pure dai duri aumenti di prezzo decisi dai nostri produttori.
Allora, poste le premesse, ecco le conclusioni. Chi voglia guardare con maggior tranquillità al futuro, proprio sulla scorta delle cifre apparentemente ottimistiche che il 2001 ci consegna, dovrebbe badare a un paio di cose.
Anzitutto differenziare l'export, cercando di posizionarsi (e bene) sui nuovi mercati che si stanno aprendo, dal Canada al Brasile, dalla Corea alla stessa - con cautela, certo - Cina (non è un caso che otto grandi e avvedute aziende italiane, oltre 13 milioni di bottiglie in totale, abbiano appena costituito un Consorzio, il Vines & Wines, per spalleggiarsi in questo tentativo).
In secondo luogo, deporre ogni snobismo rispetto al mercato interno, fin troppo trascurato (perché lento pagatore, o più coriaceo renitente agli aumenti) da troppe aziende. Ma, in fondo, eredità da difendere con i denti, prima che qualcuno venga a mangiarcela in casa. Già: perché il continuo salire dei nostri prezzi, giunto a livelli eclatanti in percentuale anno su anno, sta facendo rientrare in gioco vini e paesi che fino a poco fa scapitavano in convenienza, una volta raggiunta noi la qualità sufficiente, rispetto ai nuovi vini italiani. Ora, non più così tanto. Ecco perché l'anno prossimo, oltre ai dati sull'export, conto di leggere con enorme attenzione quelli sull'import. Che qualcuno ci darà, spero, in una delle prossime (tante, tantissime...) fiere.
A proposito di prezzi, di come si formano, di come crescono. Mi pare argomento troppo serio per liquidarlo qui, in due righe d'appendice. Vogliamo riparlarne? Appuntamento alla prossima Opinione. E a quella successiva, magari, per parlare di inflazione. Non di soldi, stavolta, no. Proprio di fiere...
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