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La questione è: cosa è lecito, e cosa no, nel far vino ?
di Guardiacampo

C’è baruffa nell’aria. E non è, signornò, il remake della vecchia, fortunata pubblicità di un profumo. E’ che nell’ambiente tira un vento di polemica tanto forte che sembra un ciclone. Con punte di rissa e scontri corpo a corpo che – non costasse tanto la materia prima – potrebbero finire con sfide rusticane a colpi di bicchieri da Borgogna grand cru spezzati, e usati a mo’ di pugnale.
Che ci sia polemica, e tanta, a questo punto della storia di “Enoitalia parte seconda” (quella che tira, la prima era quella che non rendeva e glie ne fregava punto o poco a nessuno), non sorprende . E, in un certo senso, entra in bilancio nella colonna dei più. Tutto quel che va di moda - e, cazzarola, quando mai vino e cibo sono andati così di moda, da noi? – oggi si alimenta, per continuare a stare in the mood, di polemica. Dunque, se in giro c’è tanta voglia di strozzarci in famiglia (si fa per dire famiglia, ovviamente), è perché ci sentiamo tanto sulla cresta dell’onda.

Chi però vuole un pizzico di bene a questo mondo e al suo motore (che non sono le chiacchiere più o meno vetriolate, ma quel che c’è nel bicchiere e le sensazioni che dà per i più puri e i più rigorosi; i conti dell’import, dell’export e dei fatturati per i più concreti; l’autopromozione a cavallo della bottiglia per i più narcisi e ambiziosi) non può non cogliere il rischio forte della faccenda, quello marcato da un eloquente segno meno: e cioè che anche il wine world nostrano finisca nel calderone del cosiddetto polemismo all’italiana. Quello che ha reso indigeribile (o ha fortemente contribuito al risultato) la politica a tanti connazionali, provocando di fatto un danno epocale dalle conseguenze ancora non chiare; quello che ha attecchito in troppi titoli di giornale dove la parola “polemica”, appunto, è il clou, ed è scritta talmente grossa da nascondere completamente il perché, l’oggetto, il “cosa”. Insomma: la polemica a far notizia, e la notizia che va bellamente a farsi fottere …

E allora, ciò premesso, buttiamoci pure sull’ultima (o è già la penultima?) polemica: quella che vede protagonisti un eno-polemista dichiarato e il Merlot presunto inesistente in vigna, o se esistente forse non autorizzato, di un’azienda fortunatissima del Sud, stranota per i suoi vini, ma anche - per chi è nell’ambiente - per avere in prima come in seconda fila personaggi importanti non solo nel mondo della cantina e del vigneto.

Chiarito subito che a noi, personalmente, pare un segno di eno-democreazia che nel vino ci stiano di pari passo, oggi, banchieri e bancari (questi ultimi a fare le loro brave cinquemila bottiglie “nate come hobby e poi divenute centrali nella mia vita”, specie da quando si possono vendere a quarantamila l’una; i primi a fare investimenti da arcimiliardi e piani di sviluppo coi fiocchi, vedi le ultime mosse di Zonin), aggrappiamoci pure all’ultimo “caso”. Ma, ve lo diciamo subito, per usarlo come un taxi, non come una mongolfiera. Perché ci porti, cioè, dritti a quel che è il nocciolo della questione. Quello che interessa a chi compra vino. A chi naviga nei siti dedicati. A chi compra i libri e le Guide di settore, e apre magari il giornale non dalla pagina dello sport, ma da quella della bottiglia e del ristorante.

E cioè: cosa è lecito, e cosa no, oggi, nel far vino? E‘ lecito importare uve da aree diverse dalla propria (come del resto hanno fatto per decenni gli imbottigliatori, e tantissimi produttori a ogni latitudine, specie al Centronord)? E’ lecito usare l’osmosi inversa, leggi concentratore, per far vini, soprattutto bianchi, densi come melasse, alcolici come Fernet, dal futuro incerto, ma dal presente premioso? E’ lecito e opportuno surmaturare di tutto, di più, appiattendo fin troppo spesso le stimmate varietali delle uve, e poi salvare il salvabile con la macerazione carbonica di parte della materia prima? E’ opportuno e saggio (sulla liceità qui non ci sono dubbi) prezzare come Cartier, alla loro prima edizione, vini che si sa già non ripetibili alla seconda (quantità programmate diverse, uve di altre vigne, eccetera)?

Ebbene: la nostra opinione è sì. Un bel sì, a tutto tondo. Il vino giustifica i mezzi. Meglio uno buono – ma che sia buono! -fatto anche come sopra, che uno cattivo fatto secondo le discipline dei cistercercensi e con lo spirito dei flagellanti. Ma a un patto: dovete dircelo. Abbiamo il diritto di sapere. E di scegliere.

Ce lo siamo guadagnato, noi consumatori, sul campo. Esattamente come i produttori il loro nuovo benessere, la loro ricchezza diffusa, e i guru del vino i loro passaggi televisivi e sui rotocalchi.Ce lo siamo guadagnato pagando una singola Barbera “nouveau” come dodici (alcune delle quali buonissime, peraltro) vecchio regime. Accettando sportivamente rincari del 150% in due anni dello stesso vino (o almeno è quel che ci giura chi lo fa, e cioè che non sia cambiato…). Moltiplicando per sei la tiratura delle Guide, e per quattro il loro numero. Acculturandoci, studiando, leggendo, imparando a memoria, frequentando corsi, assaggiando e assaggiando (divertendoci come matti anche, facendo amicizia e anche fidanzandoci, certo, ogni tanto con la/il compagna/compagno di sputacchiera). Imparando infine ad amare e valorizzare le uve autoctone e il territorio, ed aderendo entusiasticamente al fenomeno dell’enoturismo. Ma adesso, finalmente, possiamo sapere. Siamo diventati adulti. Potete dirci tutto. Dove prendete l’uva, quanto costa produrre un vino (parliamo di costo industriale ovviamente), se invertite o no (parliamo di osmosi, chiaro)… Insomma, tutto. Se non ce lo dite, però, forse è la volta che ci arrabbiamo davvero. Diteci la verità, scrivetela in etichetta: la capiremo. E giudicheremo con i metodi che, faticando e divertendoci, abbiamo imparato: cioè degustando. E sceglieremo. Ma ditecela! Non costringeteci a chiederla a qualcun altro. Come a volte hanno fatto quei malfidati, antisportivi dei buyer svizzeri. Con i risultati che tutti sappiamo …

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