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LA RIFLESSIONE

Le questioni endemiche della “guerra del grano”, dal ruolo dell’agricoltura al valore del pane

Troppo, forse, “rilanciarla” nell’avvio della trebbiatura in Italia. Ricordare, invece, le parole del Papa: “il grano ucraino non sia arma di guerra”
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La riflessione di WineNews sulla “guerra del grano” (ph: Unsplash)

“Mai venga a mancare la libertà e il pane” e, parimenti, non manchi mai “rifugio agli stranieri, giustizia per gli oppressi”, è la preghiera per i poveri pronunciata da Papa Francesco, nell’ultima “Giornata mondiale dei poveri”, ben prima dello scoppio della guerra Russia-Ucraina, in un luogo-simbolo come Assisi, la città di San Francesco, il Santo dei poveri, tra i cui miracoli c’è anche quello del pane, alimento essenziale per il nutrimento dell’umanità. Parole che appaiono come profetiche, se messe in relazione con l’appello lanciato dal Pontefice solo pochi giorni fa perché “non si usi il grano dell’Ucraina come arma di guerra”, di fronte al blocco delle esportazioni di frumento dal Paese, uno dei maggiori produttori al mondo di questo bene alimentare primario, dal quale dipende la vita di milioni di persone, specialmente nei Paesi più poveri. Forse mai come adesso in epoca moderna, dopo la pandemia e con il conflitto che non si ferma, abbiamo compreso il ruolo fondamentale dell’agricoltura, nelle nostre vite e nella nostra storia, ed il valore enorme che ha un cibo come il pane, capace di accomunare nella diversità delle tradizioni i Paesi di tutto il mondo che lo considerano indispensabile alla sussistenza degli uomini. Troppo forse, “rilanciare” la “guerra del grano” nei giorni dell’avvio della trebbiatura in Italia, a fronte delle questioni endemiche che fa emergere, come la necessità dello sviluppo agricolo dei Paesi più poveri, da sempre sostenuta da Slow Food e dal suo fondatore Carlin Petrini, lo spettro dell’insicurezza alimentare divenuto ora globale e che rende più difficile raggiungere l’obbiettivo “Fame Zero” come avverte l’Onu, e come gli effetti dell’aumento dei prezzi della materia prima, dall’Europa agli Usa, al Medio Oriente.
Nei lockdown, in molti si sono rimessi a fare il pane in casa, un gesto pieno di significati, come sottolineato da molti. Ma il conflitto Russia-Ucraina li ha messi decisamente in secondo piano, relegandoli, anzi, nella futulità. “Persino adesso che siamo satolli e pasciuti di ogni bendidio alimentare, dire grano, vuol dire ancora qualcosa di molto più grande di un chicco - afferma lo scrittore Maurizio Maggiani (su “La Repubblica”) - vuol ancora dire pane, e incredibile che possa sembrarci intanto che non riusciamo a mangiarci una michetta a testa e metà la buttiamo, nel suono del pane riverbera qualcosa di ineffabile riguardante l’essenziale del bene, e, ascoltando con attenzione, udiamo insinuarsi il sibilo della fame, e fremiamo. Pane e fame, nell’opulenza rimane ancora la fossile traccia di un antico grido di battaglia, pane e lavoro; nel sacchetto ricolmo di grissini da 15 euro al kg si annida un’ancestrale smania di possesso, la pacchia potrebbe finire. Mio padre mi dava un ceffone se mi beccava a fare palline con la mollica della michetta, per lui la mollica era già pacchia. Adesso è iniziata una nuova guerra del grano, lo è senza l’ombra di metafora, ma chi sa davvero cosa è il frumento, la guerra l’ha già persa”.
Per effetto dei cambiamenti climatici e della siccità, è da tempo che la produzione di grano in Italia è in calo, quest’anno del 15%, con il raccolto che dovrebbe attestarsi a 6,5 miliardi di kg su una superficie totale di 1,71 milioni di ettari coltivati tra grano duro per la pasta (1,21 milioni di ettari) e grano tenero per pane e biscotti (oltre mezzo milione di ettari). Il Belpaese è diventato deficitario in molte materie prime e produce appena il 36% del grano tenero e il 62% del grano duro. La minor produzione pesa sulle aziende cerealicole che hanno dovuto affrontare rincari delle spese di produzione che vanno dal +170% dei concimi al +129% per il gasolio con incrementi medi dei costi correnti del 68%, secondo elaborazioni Coldiretti su dati del Crea, dalle quali si evidenzia che in 1 caso su 4 i costi superano i ricavi con il grano duro per la pasta che è quotato in Italia 55 centesimi al kg e quello tenero per il pane a 45 kg al chilo. Ma l’Italia è costretta ad importare materie prime agricole anche a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori costretti, come in passato, ad abbandonare i loro campi. L’impatto si fa sentire anche sui consumatori con i prezzi che dal grano al pane aumentano da 6 a 12 volte, tenuto conto che per fare 1 kg di pane occorre circa 1 kg di grano, dal quale si ottengono 800 grammi di farina da impastare con l’acqua per ottenere 1 kg di prodotto finito venduto da 2,7 euro al chilo a 5,4 euro al chilo. Nel complesso, tutta la produzione mondiale di grano per il 2022/23 è stimata in calo a 769 milioni, per effetto della riduzione in Ucraina con un quantitativo di 19,4 milioni di tonnellate, il 40% in meno dei 33 milioni previsti, ma anche in Usa e in India, secondo l’International Grains Council. Per contro il raccolto di grano cresce del 2,6% in Russia per raggiungere 84,7 milioni di tonnellate delle quali circa la metà destinate all’export del primo esportatore mondiale di grano, dal quale dipendono molti Paesi nonché gli equilibri geopolitici mondiali: Egitto, Turchia, Bangladesh e Iran acquistano più del 60% del proprio grano da Russia e Ucraina, e la situazione non è molto diversa anche per Libano, Tunisia Yemen, Libia e Pakistan. Una situazione che riguarda direttamente anche l’Ue dove il livello di autosufficienza varia dall’82% per il grano duro destinato alla pasta al 93% per i mais per l’alimentazione animale fino al 142% per quello tenero per la panificazione, secondo l’ultimo outlook della Commissione Ue.
Ma la questione della sovranità alimentare, riportata al centro da questo scenario mondiale anche in Italia, più che esser stata sottovalutata perché ci siamo crogiolati troppo nei successi dell’export dell’agroalimentare made in Italy, lo è stata “nel pagare il grano tenero una miseria, con contadini che, incassando meno del valore di un cappuccino, hanno smesso di coltivarlo - rifletteva il patron di Eataly, Oscar Farinetti, solo qualche mese fa in un’intervista con WineNews - lo stesso vale per il mais. Abbiamo tenuto bene sul grano duro grazie alla riscoperta di sementi e cultivar antiche e autoctone, e chissà se questa crisi non possa spingere soprattutto i più giovani ad intraprendere questa strada, nonostante tutte le difficoltà, anche per il grano tenero ed il mais (che vuol dire, aggiungiamo, noi puntare concretamente sulla nostra grande biodiversità e su quelle produzioni sostenibili di cui ci riempiamo altrettanto la bocca, ndr), a patto che una fetta degli aumenti vada al contadino. Io non sono di quelli che vedono come un fatto così grave che il prezzo dei frumenti aumenti: non costano niente rispetto a tutto il resto”.
E stupirsi oggi, è troppo tardi, come sempre succede. E questo, per noi, è senso del monito di Papa Francesco.

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