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Nomisma: l’export agroalimentare italiano nel 2017 supera i 40 miliardi di euro, ma i big exporter sono lontani, con la Germania a 76 miliardi di euro e la Francia a 60. Lo spazio per crescere c’è ma pesano dazi e politiche protezionistiche Usa

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Nomisma: l’export agroalimentare italiano nel 2017 supera i 40 miliardi di euro, ma i big exporter sono lontani ...

Continua a crescere l’export agroalimentare italiano, che nel 2017 mette a segno un ulteriore +7% sul 2016, superando i 40 miliardi di euro, grazie soprattutto alle ottime performance di alcuni dei prodotti rappresentativi del made in Italy: formaggi (+11%), vino (+6%), cioccolata (+20%), prodotti da forno (+12%). Il Belpaese fa meglio degli altri “big exporter”, come Usa (-0,2%), Cina (+2,1%), Germania (+3,3%) o Canada (+3,4%), ma la distanza in valore assoluto resta ancora alta: l’export tedesco vale infatti 76 miliardi di euro, quello francese 60. Le potenzialità per l’agroalimentare italiano ci sono, ma sugli scambi internazionali pesano le incognite della Brexit e della politica protezionistica di Trump. Ecco, in sintesi, la fotografia che emerge dalla relazione di Nomisma (www.nomisma.it) presentata oggi, a Bologna, al convegno “L’agroalimentare italiano alla prova dell’internazionalizzazione”.
Negli ultimi 10 anni il processo di internazionalizzazione che ha contraddistinto l’attività imprenditoriale del settore agroalimentare italiano ha vissuto una vera e propria svolta, perché sebbene l’Italia abbia sempre giocato un ruolo di primo piano nel commercio internazionale di prodotti agroalimentari, il calo dei consumi domestici seguito alla crisi economica ha spinto le imprese alimentari italiane a rivolgersi sempre di più al consumatore straniero.
Basti pensare che tra il 2007 e il 2017 il valore delle esportazioni agroalimentari italiane è passato da 22 ad oltre 40 miliardi di euro, record storico, sebbene ancora lontano dall’ambizioso traguardo che il Paese si è dato dei 50 miliardi al 2020. In particolare, a trainare questa crescita sono settori tipici del made in Italy come lattiero-caseario, carne e derivati, vino, che, a partire dal 2007, hanno fatto segnare incrementi medi annui dell’export superiori al 6%.
Numeri che collocano l’Italia in quinta posizione in Europa, alle spalle di Olanda, Germania, Francia e Spagna, a dimostrazione di come la brand reputation da sola non sia sufficiente per affrontare i mercati internazionali e garantire una leadership. Conoscenza, competenza e organizzazione sono elementi indispensabili in questo processo di internazionalizzazione spesso appannaggio delle imprese più strutturate. Basti pensare che in Italia solamente l’1,7% delle imprese alimentari ha più di 50 addetti, contro il 10,5% della Germania o il 4,1% della Spagna, ed è in grado di esportare circa il 30% della propria produzione.
La presenza ridotta dei prodotti italiani nei mercati più distanti è un’ulteriore evidenza di questi limiti: basti pensare che i due terzi dell’export agroalimentare italiano sono destinati a mercati “di prossimità”, cioè Paesi dell’Unione Europea, mentre la restante quota si distribuisce tra America (13,5%), Asia (9%), altri Paesi Europei (7,6%), Africa (2,4%), sebbene nell’ultimo decennio il nostro export agroalimentare sia cresciuto del 229% verso il Medio Oriente, del 197% in Asia centrale, del 163% in Asia Orientale e del 123% nei paesi del centro-sud America, dimostrando quindi enormi potenzialità, ancora tutte da sfruttare.
“Affinché l’export dei prodotti agroalimentari italiani aumenti, è indispensabile che si allarghi la base delle imprese esportatrici, in larga parte riconducibili ad aziende medio-grandi e rappresentanti una quota ancora ridotta del totale, meno del 20% del settore”, spiega Denis Pantini, responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma. Tra le criticità che rendono la vita difficile alle piccole e medie imprese italiane in questa corsa all’export, figurano dazi e barriere non tariffarie, che rappresentano spesso ostacoli insormontabili. Tra il 2012 e il 2016 il numero di misure sanitarie e fitosanitarie e barriere tecniche e commerciali è aumentato rispettivamente del 43% e 99%, per non parlare dei dazi medi all’import che in alcuni casi sono superiori al 30% a valore. In quest’ottica, gli accordi commerciali giocano certamente un ruolo di primo piano: ne è una dimostrazione quanto sta accadendo sul mercato del vino in Cina, dove Australia e Cile, grazie ad accordi bilaterali che hanno azzerato i dazi all’importazione, insieme hanno eroso più del 10% del mercato a Francia, Italia e Spagna (che all’opposto non godono di queste agevolazioni).

Le opportunità in sostanza non mancano; nei prossimi 5 anni ci si attende infatti una ulteriore crescita dei consumi alimentari in molti dei principali mercati mondiali: Stati Uniti (+24%), Cina (+44%), India (+85%), Russia (+45%), Corea del Sud (+22%), Canada (+35%). Paesi dove, tra l’altro, si stima aumenterà anche il reddito medio pro capite, un condizione utile alla luce dei prezzi medi dei prodotti italiani esportati dall’Italia, mediamente più alti di quelli dei competitor (ad esclusione del vino francese).
In definitiva, le imprese alimentari italiane si trovano oggi ad affrontare una duplice sfida: sul mercato domestico, dove, in un contesto di graduale ripresa dei consumi, il consumatore modifica continuamente il suo approccio alla spesa e pone sempre più attenzione nei confronti di valori come la salute, la sostenibilità ambientale e la semplicità con conseguenti effetti sulla composizione del paniere di spesa. E sul mercato internazionale, dove si configurano grandi opportunità di crescita ma, allo stesso tempo, le imprese si devono confrontare con una concorrenza agguerrita e organizzata e con mercati che richiedono competenze e conoscenze specializzate soprattutto alla luce dei repentini mutamenti nello scenario economico e geopolitico globale, in primis la Brexit e la politica protezionistica di Trump.

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