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Per chi finge di non capire … Sulle denominazioni e sulla riforma della 164/92, la legge “quadro” del vino italiano …
di Franco Pallini

La vicina riforma della Legge 164/92, dettata più dall’adeguamento alla nuova Ocm che da un vero e proprio ripensamento dell’assetto complessivo delle denominazioni italiane, sta per lasciare sul campo una serie di possibili cambiamenti che, a ben guardare, avrebbero potuto mutare davvero la situazione, per certi versi caotica, della nostra produzione vitivinicola. Forse anche gli stessi estensori della legge “quadro” del vino italiano, dopo diciassette anni di onorato servizio che hanno dimostrato la validità del suo impianto generale, avrebbero richiesto un maggiore coraggio nel cambiamento di quel testo già molto avanzato, necessario non solo per adeguarsi all’Europa, ma anche per fornire al mondo del vino italiano strumenti all’altezza delle scelte strategiche e stilistiche che ne condizioneranno il prossimo futuro.

A partire dall’eccessivo numero di denominazioni che l’introduzione del Regolamento Ce 479/2008 invece di ridurre ha aumentato, con una corsa all’ultimo secondo per istituirne di nuove con i vecchi criteri nazionali un po’ in tutte le parti d’Italia, mentre sarebbe forse stato necessario cogliere l’occasione per eliminarne alcune, vista la loro poca o nulla incidenza sui mercati e vista la situazione di perdurante sovrapproduzione vinicola, arrivata ad una evidenza drammatica con l’attuale crisi economica generale, ma che già covava da tempo sotto la confortante “cappa” della distillazione di crisi.

L’arrivo della liberalizzazione dei diritti d’impianto, un provvedimento che, in qualche modo, dovrà essere bilanciato non solo quantitativamente con l’estirpazione, potrebbe minacciare il valore dei nostri territori ad alta vocazione viticola. E il sistema delle denominazioni italiane dovrebbe cercare di diventare più semplice e al contempo più rigoroso, legandosi, senza se e senza ma, ai luoghi e ai territori.

Il mantenimento dell’articolo 4 comma 2 della vecchia 164 (“All'atto del riconoscimento della denominazione e della delimitazione dell'area viticola, le zone di produzione possono comprendere, oltre al territorio indicato con la denominazione di origine, anche territori adiacenti o vicini, quando in essi esistano analoghe condizioni ambientali, gli stessi vitigni e siano praticate le medesime tecniche colturali, purché i vini prodotti e commercializzati da almeno un decennio abbiano uguali caratteristiche chimico-fisiche ed organolettiche”), che consentirebbe ancora alle eventuali nuove denominazioni di far valere una sorta di “delega” territoriale per un allargamento della denominazione fuori dai confini stabiliti, non pare garantire questa prerogativa. Insomma, se un territorio è stato scelto per ospitare una denominazione, secondo criteri rigorosi e il più possibile obbiettivi (auspichiamo che uno strumento come la zonazione diventi il principale metodo per delimitare una zona ad alta vocazione viticola e che magari i confini di una nuova denominazione non siano tracciati a tavolino per compiacere lobby o cordate politiche) è del tutto fuorviante dare la possibilità di “uscire dalla denominazione” per legge.

Di più, un allargamento o un cambiamento delle zone a denominazione esistenti, soprattutto di quelle più importanti, creerebbe un “vulnus” a dir poco insanabile. I confini storicamente delimitati delle nostre denominazioni, infatti, a fatica, proprio per la loro debole storicizzazione intrinseca, cominciano forse solo adesso ad essere riconosciuti un po’ meglio. Cambiarli vorrebbe dire costruire un vero e proprio svantaggio competitivo decisamente pericoloso.

Sempre in tema di rigore, anche la conservazione dell’articolo 6 comma 2 della vecchia 164 (“E’ consentito che, nell’ambito di una denominazione di origine coesistano vini diversi Docg o Doc”), oltre a continuare ad “incasinare” le denunce uve dei produttori ed a lasciare aperto lo spazio a scelte vendemmiali a dir poco bizzarre, rimane un elemento di confusione che rende ancora più difficile la comprensione dell’offerta da parte del cliente finale.

Nella proposta di revisione della 164, a ben guardare, c’è un provvedimento che sistematizza in modo finalmente chiaro, almeno un caso, quello del Chianti Classico, nella cui zona di produzione non sarà più possibile produrre Chianti, se non Chianti Classico. Una scelta di chiarezza che, forse, avrebbe potuto essere estesa ad altri areali o quanto meno lasciata intendere come indirizzo generale da applicare gradualmente nel sistema delle denominazioni italiane. Magari rafforzando e incentivando lo strumento delle “sottozone”, presente nella vecchia 164, ma, purtroppo, ancora poco usato nel nostro ordinamento, forse perché a guardare il modello francese si rischia soltanto di essere accusati di bieco provincialismo …
Franco Pallini

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