Come diciamo da tempo, la sostenibilità, a 360 gradi (ambientale, economia e sociale), è uno dei pilastri non solo della produzione, ma dell’agire complessivo delle aziende vinicole. Al punto che almeno l’84% di loro mette in campo pratiche di sostenibilità, anche se non sempre certificate. Aspetto decisamente importante per comunicare al consumatore quanto si mette in pratica. Il tipo di certificazione più diffuso (soprattutto tra cooperative e produttori che si procurano uva da terzi) è quello relativo alla qualità e sicurezza alimentare (57% delle aziende). Con le più diffuse che sono quelle Iso, ma molto presenti sono anche le certificazioni Brc (British Retail Consortium) e Ifs (International Featured Standards), standard internazionali nati dal mondo dei retailer e ormai prerequisiti per la certificazione di qualità nella filiera di fornitura dei prodotti della Gdo. Ma ben diffuso è anche il Sqnpi (Sistema di Qualità Nazionale di Produzione Integrata), schema di certificazione che ha come obiettivo quello di valorizzare le produzioni agricole vegetali ottenute in conformità ai disciplinari regionali di produzione integrata. È una delle evidenze che emerge dalla ricerca “Sostenibilità certificata ma poco comunicata: la virata necessaria per i brand del vitivinicolo”, firmata da Altis e Opera dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che ha analizzato un campione fatto da 70 aziende di primissimo piano del vino italiano, rappresentative di aziende private, cooperative e commerciali (Allegrini, Antinori, Zaccagnini, Banfi, Barone Ricasoli, Berlucchi, Bottega, Botter, Cantina di Soave, Cantina Sociale di Orsago, Cantina Vallebelbo, Cantine La Vite, Cantine Riunite-Civ, Cantine Settesoli, Caviro, Cavit, Cecchetto, Cerester, Cielo e Terra, Collis Veneto Wine Group, Produttori Vini Manduria, Contri Spumanti, Cusumano, Duca di Salaparuta, Enoitalia, F&P Winegroup, Fantini Group, Feudi San Gregorio, Firriato, Fratelli Martini, Frescobaldi, Gancia, Genagricola, Gruppo Ermes, Gruppo Italiano Vini, Gruppo Santa Margherita, Italian Wine Brands, La Marca Vini e Spumanti, La Vis, Latentia Winery, Librandi, Livio Felluga, Losito e Guarini, Lunelli, Lungarotti Società Agricola, Masi, Mezzacorona, Michele Chiarlo, Mionetto, Mirafiore-Fontanafredda, Mondodelvino, Pasqua, Piccini 1882, Rocca delle Macìe, Ruffino, Schenk Italian Wineries, Tasca d’Almerita, Terra Moretti, Terre Cevico, Terre Cortesi Moncaro, Togni, Tommasi Family Estates, Torrevento, Tosti 1820, Tre Secoli, Valdo, Val d’Oca, Villa Sandi, Vivo Cantine e Zonin1821). Dopo quelle alimentari, le certificazioni di sostenibilità (su tutte Equalitas e Viva) sono le seconde più diffuse (53%), soprattutto tra i privati, seguite dalle certificazioni di sostenibilità ambientale (46%), in voga soprattutto tra le cooperative. Meno gettonate, almeno per ora, quelle di sostenibilità sociale (ovvero legate a salute, sicurezza sul lavoro e così via), presenti solo nel 21% dei casi, in particolare tra i produttori con vigneti propri.
Questo, dice l’analisi, fatta secondo il “modello Molteni”, che, tra i parametri proposti per definire il livello di integrazione della sostenibilità in azienda, prende in considerazione tre strumenti: la reportistica di sostenibilità, la presenza di una strategia formalizzata e la comunicazione pubblica (il sito internet). Quest’ultimo non è solo il punto di partenza attraverso il quale le aziende comunicano, ma è anche lo strumento più diffuso e da loro utilizzato per raggiungere i propri stakeholder. E se una sezione dedicata alla sostenibilità è presente nei siti del 78% delle cooperative e nel 48% delle cantine private con vigneti di proprietà, sulla qualità delle informazioni fornite c’è ancora da lavoare. 30 aziende del campione, pari al 43%, hanno ricevuto una valutazione nella fascia massima 4-5, che significa un buon livello di completezza e approfondimento delle informazioni relative alla sostenibilità. C’è poi un 20% di aziende - pari a 14 - che hanno una sezione sulla sostenibilità nel proprio sito ma che, però, fornisce informazioni limitate. E, per questo, hanno ricevuto un punteggio tra 2 e 3. Infine, un 37% di aziende, che non comunicano nulla in termini di sostenibilità o forniscono informazioni limitate e poco approfondite, hanno ottenuto un punteggio tra 0 e 1. Ancora, emerge che solo 18 cantine su 70 (per la maggior parte cooperative), redigono un report di sostenibilità (e solo una ha iniziato prima del 2010, mentre l’81% lo ha fatto, per la prima volta, tra il 2019 ed il 2020).
Sul fronte delle “best practices”, ancora emerge che il 54% di quelle attivate dalle aziende riguardano il tema dell’energia, il 53% l’acqua, il 51% l’ospitalità, il 50% la gestione integrata delle infestazioni, il 44% le emissioni, e poi a seguire la gestione dei rifiuti, l’anticorruzione e l’etica aziedale, il packaging sostenibile la salute e la sicurezza sul lavoro, la promozione del territorio e dell’economia locale, la formazione dei collaboratori e così via. “La riconoscibilità della certificazione tra i consumatori - si legge nelle conclusioni della ricerca - è una leva fondamentale per appropriarsi pienamente del valore, anche economico, della sostenibilità. Tuttavia, perché sia efficace, la certificazione deve innestarsi in un percorso strategico, che fissi degli obiettivi di medio-periodo e una road-map da seguire che consenta all’azienda di dimostrare con continuità l’impegno profuso in ambito Esg (Environmental, Social & Corporate Governance) e permetta ai consumatori di (ri)conoscere il valore della sostenibilità”.
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