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Viaggio al centro di alcune contraddizioni del mondo del vino italiano
di Franco Pallini

Siamo molto contenti del fatto che, secondo i dati Istat relativi al 2005, il numero di bottiglie made in Italy vendute all’estero è cresciuto del 9,2%. Segnale chiaro di una buona vitalità concorrenziale delle nostre imprese vitivinicole che porta con sé aspettative positive per tutto il comparto, costretto da quasi quattro anni a fare i conti con una pesante crisi di mercato, forse imparagonabile con quelle precedenti.
Ma, sempre secondo i dati Istat, le prime sei regioni produttrici di vino (Veneto, Puglia, Emilia Romagna, Sicilia, Abruzzo e Piemonte) sono diverse dalle prime sei regioni esportatrici (Veneto, Piemonte, Toscana, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna e Lombardia). Il sud compare, prepotentemente, solo nella graduatoria di chi produce (Puglia, Sicilia, Abruzzo), ma scompare “misteriosamente” in quella di chi esporta.
Ecco una delle prime (e numerose) contraddizioni che affliggono il mondo del vino e che qui di seguito proviamo a mostrare, almeno in parte, senza un ordine preciso e come elemento di riflessione, senza indicare soluzioni (che non siamo in grado di dare), ma segnalando qua e là qualche spunto.
Tracciabilità vs “Cisternopoli”
La macchina per i controlli sulla tracciabilità di filiera, approntata dai Consorzi di Tutela sembra aver ingranato la marcia giusta (benché al centro di una polemica sulla sovrapposizione dei controlli, gli eccessi di burocratizzazione e i costi aggiuntivi che con la recente approvazione del decreto “erga omnes” peserebbero sulle aziende), ma la magistratura è ancora impegnata su alcuni filoni d’indagine nell’ambito di “Cisternopoli”, lucida ed efficace espressione coniata da Daniele Cernilli, per indicare l’illecito traffico di autocisterne che dal sud raggiunge il centro e il nord Italia.
Il Marketing è per pochi, la “promozione” per tutti
Si parla tanto d’applicazione del marketing al vino, specialmente in un momento d crisi come quello attuale, e, probabilmente, a ragione. Che ci si attenga alle teorie di Kotler di Winer o di Ries, ci sarebbe davvero bisogno di applicarlo sistematicamente e con rigore, operando sulle dinamiche dei mercati, le caratteristiche del prodotto, il posizionamento di prezzo e la comunicazione. Il che cozza irrimediabilmente con il fatto che soltanto pochissime aziende possono permettersi di essere autenticamente “market oriented”, rispetto alla moltitudine di piccole o medie imprese che costituiscono la realtà del panorama vitivinicolo italiano (notoriamente alquanto polverizzato e questo è un altro problema). Così, ci siamo inventati un marketing un po‘ più casereccio e alla portata quasi di tutti, ridotto sostanzialmente alla comunicazione e/o promozione. Risultato? Ritorno “0” per le aziende, ma, in compenso, nascita e crescita di un immane “Circo Barnum”, (secondo una brillante definizione del Prof. Attilio Scienza), fatto di eventi più o meno mondani, cene, pranzi, degustazioni a livello del mare o in alta quota.
Il vino è una merce come tutte le altre
E’ vero: il vino per essere venduto ha bisogno di competenze specifiche, conoscenza delle varie tipologie, dei vini più importanti del mondo, etc., in una parola della concorrenza. Il comparto vitivinicolo si è già “gongolato” abbastanza sul fatto che il vino fosse un genere merceologico “speciale”, ma questo accadeva in un periodo di “vacche grasse” ormai trascorso e forse irripetibile, a cavallo fra la metà degli anni ’80 e la fine degli anni ‘90, quando vendere il vino era semplicissimo, trattandosi essenzialmente di “assegnazioni”. L’attuale crisi, ha riportato tutto nel suo alveo “naturale”, cioè quello del mercato e delle sue regole (prima fra tutte quella della domanda e dell’offerta) che per molto del mondo del vino italiano continuano, all’ingrosso, ad essere questione esclusiva delle altre merci. Siamo diventati competitivi nel segmento dei “premium wines” (ma con quali quantità? Un successo che vive in una contraddizione ulteriore, “sotterranea” e insuperata: sono circa 400.000 le bottiglie di Château Latour prodotte annualmente, solo per fare un esempio, mentre il Sassicaia non arriva a 200.000, per non parlare di molte altre “stelle” del firmamento enologico nostrano che hanno una produzione, per i loro vini di punta, che oscilla fra le 15.000 e le 30.000 bottiglie), ma abbiamo lasciato che tutto un segmento di mercato, quello dei “table wines”, si indebolisse, fino quasi a scomparire dai nostri portafoglio prodotti. Il vino è, banalmente, una merce come tutte le altre e giocoforza dobbiamo ripartire da questo semplice elemento. Ad iniziare da un rapporto più “sereno” e soprattutto più trasparente con i prezzi. Listini per l’estero, per le enoteche e per i ristoranti, per la Gdo, per gli agenti, per gli importatori, per i distributori, per la vendita diretta: tutti rigorosamente dai prezzi diversi. Ma in quale altro settore merceologico esiste un’indefinitezza del prezzo così marcata? In quale altro settore, le aziende produttrici restano quasi completamente all’oscuro dei ricarichi che le proprie merci subiscono al dettaglio?
Siamo nani sulle spalle dei giganti
In un ventennio (considerando come punto d'avvio il periodo immediatamente successivo allo scandalo del vino al metanolo) l'enologia italiana, cioè le nostre cantine (magari con qualche eccesso architettonico, dopo tutto la cantina resta un opificio …), i nostri enologi, ma anche l'industria delle attrezzature enologiche, hanno saputo porsi all'avanguardia, tanto da superare nei fatti i francesi. “Siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti”, dice il celeberrimo aforisma di Bernardo di Chartres, e dovremmo vedere più lontano di loro non a causa della nostra statura o dell'acutezza della nostra vista, ma perché - stando sulle loro spalle - stiamo più in alto di loro. Purtroppo, l’aforisma di Bernardo di Chartres non vale fino in fondo per il vino italiano. Le bellissime cantine, che popolano il paesaggio di molti dei nostri territori più vocati e l’abilità dei nostri enologi, troppo spesso, non è sorretta dall’elemento più importante: il vigneto. Le nostre vigne sono troppo giovani e i pochi impianti che superano i trenta anni d’età (se non sono stati decimati dalle malattie e da gestioni improbabili) sono stati realizzati con criteri agronomici arretrati e inadatti alla produzione di qualità. La nostra viticoltura è ancora giovane e non è riuscita a crescere di pari passo alla nostra enologia, contrastando in modo evidente (e in certi casi imbarazzante) con la nostra “grandeur” enoica. Certo, gli spazi di crescita e di miglioramento sono molto ampi e molto è stato fatto. Tuttavia, il “Vigneto Italia” continua a rimanere un anello debole della filiera.
Autoctoni che passione!
Mentre dal “regno del male”, dalla terra dell’omologazione e del vino da vitigno, stiamo parlando dell’Australia, si manifesta sempre più forte il desiderio di ancorare saldamente i vini ai loro rispettivi territori di produzione, zone e sottozone, da noi impazza la discussione sul vitigno e per giunta “autoctono”. La nostra ricchezza ampelografica è nota e invidiata da tutto il resto del mondo, ma dei nostri numerosi vitigni “tradizionali” o di “antica coltivazione” (il termine “autoctono”, che ha a che vedere con una pretesa nascita “in loco” di quelle varietà appare fuorviante, visto la stretta e frequente parentela con vitigni dalle origini molto più esotiche) sappiamo pochissimo sia dal punto di vista storico, botanico e, soprattutto, agronomico. Il vitigno è uno degli elementi dell’abusatissimo concetto di terroir (insieme alle caratteristiche geo-morfologiche del terreno a quelle climatiche e all’opera dell’uomo), magari molto importante perché è il “medium” che traduce il terroir nel vino, ma non può sopportare da solo il peso dell’identità (e della competitività) di un vino. Lo hanno compreso anche gli australiani.

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