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ATTUALITÀ

Vigneto italiano ma ricavi made in Usa: il paradosso dei vini low alcool negli States

Per l’Unione Italiana Vini (Uiv), c’è “impossibilità di accedere ad un business, quello dei dealcolati, bloccato dalle leggi vigenti nel Belpaese”
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Nel mondo cresce la domanda di vini low e no alcol, anche “italiani”

Si stanno facendo spazio tra i grandi e storici vini italiani, “riempiendo” il nuovo trend che vede i giovani, ma non solo, essere sempre più vicini a questa categoria di prodotti che sono finiti sotto l’attenzione anche dei palcoscenici più importanti, come è quello del Concours Mondial de Bruxelles, che assegnerà, infatti, un trofeo al miglior vino a basso contenuto alcolico o analcolico. Prodotti che trovano terreno fertile in particolar modo negli Usa, dove, per i consumatori americani, rappresentano il 28% degli acquisti totali di prodotti vitivinicoli italiani negli Stati Uniti: ma non parliamo, questa volta, di Prosecco, né tantomeno di Chianti, Pinot grigio o Valpolicella, tanto per citare qualche esempio, ma, nello specifico, di prodotti “low alcol”. Quelli che hanno raggiunto 651 milioni di dollari di fatturato nella grande distribuzione e nei retail americani nel 2023, per “rossi, bianchi, spumanti, prodotti aromatizzati” italiani classificati da NielsenIQ come vini poco alcolici, in gran parte a fermentazione parziale oppure dealcolati. Bottiglie, ma anche lattine, da 7 gradi in giù, quasi totalmente sconosciute nel Belpaese, ma sempre più presenti tra gli scaffali Usa, Paese dove il mercato del vino vive una fase di trasformazione così come i trend dei consumi degli alcolici. Vini italiani o prodotti a base vinicola, venduti ad un prezzo medio allo scaffale di quasi 16 dollari al litro, più del doppio rispetto alle omologhe bottiglie statunitensi (7 dollari) e addirittura il 5% in più al confronto con la media dei vini tradizionali del Belpaese.
Ma non mancano gli spunti su cui riflettere. Come rilevano le elaborazioni dell’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv), su base NielsenIQ, se è vero che il vigneto da cui nascono è italiano, il business è nella stragrande maggioranza dei casi appannaggio di aziende a stelle e strisce (80% del valore delle vendite), che importano dal Belpaese il prodotto finito ed etichettato e lo rivendono sul mercato statunitense. Una produzione made in Italy per un affare made in Usa, con le cantine e le imprese italiane perlopiù relegate alla produzione e all’imbottigliamento. Un paradosso, sottolinea Uiv, per la superpotenza enologica e per l’Italian style, che tira anche su una categoria, quella “low”, relativamente giovane e, fatto salvo l’ultimo anno, protagonista di una cavalcata che, grazie al cambio di gusti tra le varie generazioni ed etnie del Paese, li ha portati a essere una scelta non più secondaria rispetto al vino classico.
Un paradosso, quello sui “low”, ancora più evidente se si guarda ai “no alcol”: si tratta di vini che, se è vero che partono da numeri bassi, nel giro di due anni hanno raddoppiato le vendite negli Usa, attestate oggi, secondo l’Osservatorio Uiv, a 62 milioni di dollari. I prodotti italiani a zero alcol sugli scaffali statunitensi sono pochi, le vendite ammontano ad appena 4,5 milioni di dollari (+39% sul 2022) con un prezzo medio di 14 dollari al litro. Una quota residuale della presenza italiana (il 7% del totale), che diventa minuscola se si considera che il 90% delle vendite è imputabile a una sola azienda, per giunta americana, che acquista in Italia i prodotti finiti e li commercializza con marchio proprio. In pratica il segmento no alcol direttamente gestito da imprese tricolori vale negli Usa meno di 500 mila dollari. Un contoterzismo del made in Italy enologico sulla falsariga dello scenario evidenziato per i low alcol, reso ancora più evidente dalla impossibilità per l’impresa Italia del vino di accedere a un business, quello dei dealcolati, continua l’Uiv, bloccato dalle leggi vigenti nel Belpaese, ma non in Europa. Negli Usa, oltre ai marchi americani, sono già venduti vini a zero gradi totalmente dealcolati prodotti da aziende spagnole, tedesche, francesi e neozelandesi, che traggono beneficio da una regolamentazione in linea con quella europea. Per il segretario generale Uiv (Unione Italiana Vini), Paolo Castelletti: “il segmento low-alcol può rappresentare un’opportunità anche e soprattutto là dove il prodotto tradizionale fa fatica, come dimostra il record ventennale di vino rimasto in cantina al termine della scorsa campagna vendemmiale. Oggi per fare vini low alcol i produttori italiani hanno tre strade: utilizzare il vino come base per bevande aromatizzate, produrre vini da mosti parzialmente fermentati, oppure - in caso vogliano procedere con la dealcolazione - delegare il processo produttivo nei Paesi europei diretti competitor”. Proprio il segmento dei vini dealcolati sembra quello più interessante in ottica di medio termine, in grado di per intercettare le tendenze salutistiche in atto nel Paese, sempre più orientato a ridurre l’assunzione non solo di alcol ma anche di zuccheri. Una categoria, quella dei Nolo (low e no alcol), da molte imprese considerata a maggior potenziale di crescita qualitativa. In Italia, segnala Unione italiana vini, non si riesce a partire: “da tempo Uiv sollecita un intervento normativo per disciplinare una produzione che l’Unione Europea ha autorizzato - ha detto Castelletti - da più di due anni. Al netto delle bozze di decreto, su cui abbiamo evidenziato le perplessità del settore vino, siamo gli unici a non aver ancora recepito il regolamento Ue, con evidenti svantaggi competitivi rispetto ai produttori comunitari. Riteniamo quindi che il Governo debba trattare con la massima urgenza questo tema non più derogabile, definendo con chiarezza e assieme al comparto un perimetro chiaro di azione”. Con il paradosso di trovare al supermercato sotto casa vini no e low alcol di competitor stranieri, oggi in vantaggio su una ricerca e sperimentazione del segmento che sta facendo progressi di giorno in giorno.
Il low alcol italiano, rappresentato sia da prodotti aromatizzati a base di vino sia da vini veri e propri, negli Usa vale 651 milioni di dollari, quasi il 70% del totale della categoria (da 7 a 2 gradi), che nel complesso nel 2023 ha raggiunto i 943 milioni di dollari e quasi 110 milioni di bottiglie vendute. L’origine italiana, regina del mercato, è rintracciabile, tra i fermi, soprattutto nei rossi (39%, a 254 milioni di dollari), seguiti dal Moscato (103 milioni) e dai rosati (23 milioni).

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