Una stangata da 12,5 miliardi di euro. E’ quanto l’Europa si appresta a pagare per ripiantare 500 mila ettari di vigneto, in gran parte dovuto alla obsolescenza dei vigneti nei Paesi da poco entrati nell’Ue, nei prossimi che ci entreranno (Bulgaria e Romania e dalla normale rotazione del vigneto nei Paesi produttivi, e reggere così il passo della concorrenza mondiale. Di fronte a questo enorme impegno finanziario torna prepotente l’interrogativo: piccolo, in cantina, è ancora bello? Confrontando le dimensioni medie aziendali (5 ettari nel Vecchio Continente, circa 300 nel Nuovo Mondo) si scopre che diventa urgente ragionare sulla struttura economica del comparto vitivinicolo. E lo scenario è stato confermato anche dal recente Vinitaly, evento leader dell’enologia mondiale (dal 6 al 10 aprile 2006, a Verona).
Il panorama mondiale del vino sta cambiando e nonostante le buone performance del vino italiano sui mercati internazionali (incremento di quantità e di valore: 16,8 milioni di ettolitri esportati, oltre 1 miliardo di fatturato in Usa, incremento del 20% sul mercato russo, 14% su quello giapponese, ottima performance sul mercato francese, dove i vigneron inscenano proteste contro l’invasione delle nostre bottiglie) c’è chi vede in questa ripresa una sorta di nuovo alibi per non affrontare le “questioni strutturali”. Che sono legate alle dimensioni aziendali. Sul mondo del vino europeo si sta in effetti addensando una nube: è l’allargamento dell’Unione Europea ai 10 nuovi Paesi. Entreranno portando in dote vigne vecchie e produzioni scarse e questo costringerà l’Europa a fare i conti con 500.000 ettari da ripiantare. Uno sforzo economico spaventoso. Se si considera che il prezzo medio di un nuovo impianto è intorno ai 25.000 euro ad ettaro i conti ci dicono che serviranno 12,5 miliardi di euro: qualcosa come 25.000 miliardi delle vecchie lire. E le cantine europee non hanno i soldi per fare questa operazione.
E’ da questo scenario macroeconomico che è ripartito il dibattito sulle dimensioni delle aziende. In un mercato ormai globalizzato si rischia che il nanismo delle nostre imprese vitivinicole sia sopraffatto dal gigantismo dei nostri competitors internazionali. Per avere un’idea di quali sono le dimensioni confrontiamo le unità poderali medie. In Italia siamo attorno a 1,2 ettari per cantina, in Francia poco sotto i 4 ettari, in Spagna non si arriva a dieci, in Portogallo siamo al di sotto dei cinque ettari. Se mettiamo il naso fuori dall’Europa ecco che le cifre cambiano: dall’Australia alla California passando per il Cile, l’Argentina e il Sud Africa si nota che le unità poderali medie sulle quali contano le cantine oscillano tra i 350 e i 280 ettari. E guardando il nuovo mappamondo del vino si scopre che degli 8 milioni vitati che ci sono oggi sulla terra, la Vecchia Europa ne detiene una quota che non va oltre il 48%. Appena tre decenni fa la quota di vigna europea rappresentava il 78% dell’intera superficie vitata.
Il panorama delle cantine offerto anche dal Vinitaly n. 40, ha confermato questa profonda dicotomia del mercato globale: da una parte i giganti mondiali del vino che hanno massa finanziaria e massa critica di produzione capace di condizionare interi mercati nazionali, dall’altra le cantine di autore che però contano su produzioni esigue. Il panorama italiano da questo punto di vista è il più “critico”. Basti pensare che su 800 mila aziende che imbottigliano, soltanto poche centinaia superano i 50 ettari di vigna a disposizione, e che sopra ai 100 milioni di euro di fatturato troviamo soltanto una decina di cantine.
Guardando i numeri dell’export si potrebbe concludere che tuttavia il sistema ha retto, anzi che ha consentito flessibilità e ha aperto nicchie nelle quali gli italiani hanno conquistato importanti primati. Tuttavia i dati del mercato globalizzato dicono che ciò che noi oggi possiamo considerare punti di forza si riveleranno punti di debolezza per il sistema vino. Le ragioni sono di due ordini: internazionali ed interne. Ci sono due potenziali mercati di grandissimo interesse: la Cina e l’India, rispettivamente con 300 milioni e 180 milioni di persone che hanno un reddito più che agiato, capace cioè di proiettarli verso il consumo di vino di qualità. Messi insieme fanno l’intera platea di consumatori dell’Europa. Si può agevolmente sostenere che per le nostre cantine ci saranno dunque ampi spazi. Il fatto è che l’Italia è però il principale produttore di vino nel mondo e che non bastano i successi di poche aziende per tenere in piedi l’intero sistema vino. Il mercato cinese adesso è in mano a quattro grandi distributori, lo stesso vale per l’India dove i distributori sono sei, ed egualmente ciò avviene in Australia dove si sono avute recentissime concentrazioni nella rete distributiva. Questi “clienti” vanno serviti con milioni di casse ed infatti i produttori australiani, cileni, statunitensi hanno già penetrato le fasce medio-basse di quei mercati, forti dei loro quantitativi e dei crediti all’export che possono concedere in virtù del loro volume di fatturato.
Speculare alla situazione internazionale è quella del mercato italiano. Uno dei più importanti a livello di consumo. In Italia si bevono poco più di 30 milioni di ettolitri di vino e la permeazione del nostro mercato da parte dei vini stranieri per adesso è limitato ad una percentuale che non riesce ad arrivare alla doppia cifra. Tuttavia la parcellizzazione della produzione può trovare le nostre aziende indifese qualora vi fosse una forte offensiva di marketing e di dumping sui prezzi da parte dei produttori del Nuovo Mondo. Se questo è lo scenario è facile prevedere che nel prossimo futuro i temi centrali saranno: aggregazioni di aziende, assistenza finanziaria (e già si vedono gruppi vinicoli nazionali importanti che fanno entrare nel loro capitale partner finanziari capaci di sostenere lo sviluppo delle aziende), consorzi per l’export, nascita di gruppi di cantine che si mettono insieme rappresentando diversi territori per acquisire una massa critica capace di sostenere la concorrenza sui principali mercati emergenti del mondo.
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