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“IN TRENTINO LO CHARDONNAY E’ UN VITIGNO NATURALIZZATO, DOVE TROVA LA SUA MASSIMA ESPRESSIONE QUALITATIVA”. COSI’ IL PROFESSOR SCIENZA … E LA CANTINA LA VIS LANCIA UN’IDEA AI VITICOLTORI TRENTINI

Cantina La Vis
Fausto Peratoner, direttore generale della Cantina La Vis

“Lo Chardonnay non deve essere visto solo come un vitigno della viticoltura globalizzata. In Trentino, è un “vitigno naturalizzato”. Cosa vuol dire? Semplice: è un vitigno che, anche se viene da altri territori, trova in questa regione, dove è ampiamente e perfettamente coltivato, delle condizioni ideali per la sua espressione qualitativa. E’ l’unico esempio in Italia, solo la Borgogna e lo Champagne, nel mondo, possono vantare le stesse condizioni”. E se lo Chardonnay è la vera ricchezza del Trentino, la terra più vocata in Italia per la sua coltivazione (e la varietà locale è tra le più interessanti a livello mondiale), stando alle parole del professor Attilio Scienza, uno dei massimi studiosi di viticoltura del mondo, ieri l’enologo-manager Fausto Peratoner, direttore generale della Cantina La Vis, ha lanciato l’idea dell’alleanza tra tutti i produttori trentini di qualità per la creazione del “distretto” o della “casa” dello Chardonnay. E non poteva non essere che la cantina La Vis, dai suoi 500 ettari coltivati di questa varietà (e fornitrice del vino base per i migliori spumanti d’Italia, oltre che del famoso marchio Cesarini Sforza), a lanciare questo importante progetto “di qualificare ulteriormente questa produzione e far crescere l’intero sistema trentino che ruota attorno al nobile vitigno”.
Così, usando le parole del presidente dell’Unione Italiana Vini Ezio Rivella, se “lo Chardonnay in Trentino si colloca a pieno titolo tra i vitigni di valenza regionale dove la qualità del vitigno si esprime in modo originale per le valenze ambientali e per la cultura vinicola degli uomini”, il sistema imprenditoriale del Trentino ha subito raccolto l’invito della Cantina La Vis: “sono pienamente d’accordo” commenta Mauro Lunelli, presidente dell’Istituto Trento doc metodo classico e leader delle bollicine Ferrari, e Giacinto Giacomini, direttore generale di Cavit, il colosso cooperativo trentino, si è detto “pronto a scommettere su un progetto di qualità che riduca la quantità di uve per ricavare eccellenti vini”. Non solo, il Trentino continuerà ancora ad essere un “laboratorio aperto”: la zonazione, ovvero lo studio del territorio vocato, ha già interessato la Valle di Cembra e la Vallagarina, e presto le ricerche, anche con il contributo dell’Istituto Agrario di San Michele, saranno estese a tutto il vigneto.
Ma si può parlare di Chardonnay del Trentino quando si trova in tutto il mondo? Si può se questo vitigno fa parte della tradizione e della cultura di un popolazione da secoli: la varietà Chardonnay venne impiantata per la prima volta alla fine dell’Ottocento dal pionere Giulio Ferrari in quel di Sorni. Venne chiamato Borgogna e poi confuso per parecchio tempo con il Pinot, magari “giallo” per differenziarlo dal bianco (basti pensare che la varietà Chardonnay venne iscritta, e solo su interessamento della provincia e dell’Istituto di San Michele, solo nel 1978 al catalogo nazionale delle uve da vino). Si può se questo è diventato un patrimonio di tutto il Trentino, strettamente legato al territorio e promosso come prodotto locale. Si può se una bottiglia su quattro di Chardonnay italiano ha l’etichetta trentina. E, infine, si può, se in Trentino, come è stato confermato dai più importanti ricercatori del mondo, questo vitigno “ha una posizione di grande vantaggio, è quasi un vitigno autoctono, connaturato con l’uomo ed il territorio”.

L’intervista al professor Attilio Scienza
“Lo Chardonnay non deve essere visto solo come un vitigno
della viticoltura globalizzata: in Trentino è un “vitigno naturalizzato”

Il professor Attilio Scienza, ordinario all’Università di Milano, nonché uno degli studiosi di viticoltura più famosi ed importanti del mondo, ha coniato un nuovo termine “vitigno naturalizzato”.
Cosa vuol dire?
Semplice, lo Chardonnay in Trentino è un “vitigno naturalizzato”. Cosa vuol dire ? Che, anche se viene da altri territori, trova in questa regione, dove è ampiamente e perfettamente coltivato, delle condizioni ideali per la sua espressione qualitativa. Trova la sintonia con l’ambiente e con l’uomo, dando origini a produzioni ideali, incredibili, di alta qualità. E’ l’unico esempio in Italia, solo la Borgogna e lo Champagne, nel mondo, possono vantare le stesse condizioni”.
Ma possibile che in Italia con ci siano esempi simili allo Chardonnay in Trentino?
“Forse, il Sauvignon in Friuli. Il problema di oggi è che i vitigni di moda vengono diffusi dappertutto, in maniera davvero molto, troppo indiscriminata”. Si potrà mai mettere ordine? “No, mai: ogni viticoltore è convinto che la sua è la scelta giusta. Non si può vietare ai produttori di piantare una cultivar, ma si può però dire stai attento che non è il vitigno più indicato per quel territorio. Vinceranno, insomma, i migliori, i più forti, chi trova il clone giusto, l’ambiente giusto, il modo di vinificazione giusto, l’idea giusta di commercializzarlo”.
Ma il mondo della ricerca dovrà pur avere un ruolo?
“Lo strumento formidabile c’è, è la zonazione viticola: in un territorio come il Trentino, mi permettere di sapere dove fare lo Chardonnay per la basi spumanti, dove fare lo Chardonnay per le barriques e dove fare quello accessibile in acciaio. La zonazione mi dà una situazione esatta: mi permette di definire anche il luogo, il modo di coltivazione, il clone, il portainnesto, la produzione per ceppo: Questo è lo strumento scientifico per arrivare ad una precisa collocazione del vitigno”.

La scheda
Le “intuizioni” di Giulio Ferrari

Giulio Ferrari, nato a Calceranica (Trento), il 9 aprile 1879, muore a Trento il 14 gennaio 1965. Dopo aver frequentato l’Istituto di San Michele all’Adige, si diploma a Montpellier (Ffrancia) e frequenta in seguito l’Istituto di Geisenheim (Germania). Grande conoscitore dell vitienologia europea è il pioniere della spumantistica trentina. Fu anche un vivaista precursore: seppe apprendere infatti le tecniche vivaistiche francesi permettendo così la “ricostituzione” post fillosserica. Importa marze di “borgogna bianco” dalla Borgogna e dalla Chanpagne. I primi impianti vengono effettuati in Valsugana (Telve) e in Valle dell’Adige (Lavis).

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