La lunga crisi che ha colpito l’Occidente ha messo a nudo tutti i limiti di un capitalismo di stampo fordista, in cui si dava per scontata una crescita illimitata, dal punto di vista della produzione come del consumo. Un modello criticato da molti, anche da uno dei più fini sociologi del Belpaese, Aldo Bonomi, che ha dedicato i suoi ultimi studi proprio alla crisi del sistema capitalista, attraverso l’analisi dei territori, dove negli ultimi anni sono nate le espressioni imprenditoriali migliori di quella “green economy” sempre più concreta, a partire proprio dal mondo dell’agricoltura.
Un universo in cui, però, “bisogna tenere insieme Ferrero e Caprai: quando si parla di Ferrero - spiega a WineNews Aldo Bonomi (intrevista realizzata a Montefalco, la patria del Sagrantino, nella kermesse Enologica 34) - bisogna tenere in conto, come del resto quando si parla di Oscar Farinetti, che non esisterebbero se non ci fossero due grandi storie dietro. La prima storia, rimanda a “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli, che rimanda alle Langhe dell’abbandono, in cui però ha tenuto una dimensione profonda ed agricola, quella delle nocciole. Se non ci fosse stato il noccioleto non avremmo nemmeno il Kinder: è chiaro che c’è un intreccio di lunga deriva, con un imprenditore capace di cogliere e capire questa dinamica facendone un’impresa globale, com’è oggi la Ferrero. Altrettanto, ci ricordiamo cos’era il Carlin Petrini delle origini? Non certo un guru, ma un “rompiscatole” che aveva in mente un’ideologia ed una storia: se non ci fosse stato lui, con la sua radicalità, a mettere insieme la filiera delle Langhe, non ci sarebbe poi stato un eccellente uomo di marketing come Oscar Farinetti, che di questo ha fatto una grande impresa commerciale, che distribuisce il meglio di ogni segmento, ma il racconto dei segmenti l’ha fatto Carlin Petrini. Altrettanto, vale per la storia di Caprai che, però, è una storia al rovescio: dietro ci sta un’impresa dei distretti, la più classica e la più matura, il tessile, in grado di fare filati di qualità, e quindi se non ci fosse stato Arnaldo Caprai, che aveva messo in piedi questo distretto incastonato nel “capitalismo dolce” dell’Umbria, Marco Caprai oggi non avrebbe potuto tornare alla terra con tutta l’innovazione con cui ha preso il Sagrantino facendolo diventare un vino globale, usando tutte le modernità, compresa quella del raccolto, assoldando un uomo di comunicazione in grado di raccontare come questo vitigno sia stato trovato in un convento, come fosse ormai scomparso, e come sia stato rilanciato fino a diventare protagonista di un grandissimo vino. Bellissima storia, paradigmatica di come esista un intreccio profondo nelle lunga deriva della nostra storia, che, però, non può essere raccontata in termini di fondamentalismi, come la decrescita felice, perché andremmo incontro in realtà ad una decrescita assolutamente infelice, se non recessione tragica, come la situazione che, a causa della crisi, stiamo vivendo oggi. Il problema - continua Bonomi - quindi è capire la lunga deriva, e farla incontrare con la green economy in un nuovo modo, con il capitalismo capace di inglobare il concetto del limite, che non è difficile. Io non sono contro l’impresa, vorrei solo che il profitto prossimo venturo venisse prodotto con merce compatibile, nuovi materiali, ricerca, innovazione, grande cambiamento, metamorfosi, sono addirittura su una posizione iper riformista, quella del capitalismo che cambia se stesso, come del resto ha sempre fatto, ovviamente in base ad un qualche conflitto, perché senza conflitto non c’è cambiamento. Dentro la crisi, la metamorfosi è inevitabile: abbiamo capito che quel modello produttivo che chiamavamo della crescita illimitata, è finito, è un termine già desueto, poi se a qualcuno non piace il termine green economy usi il termine sviluppo, o sviluppo compatibile, però è questo il tema vero rispetto alla modernità, quindi, credo che quelli che hanno innovato partendo dall’agricoltura e dalla terra sono un esempio di green economy effettiva, perché non è che l’azienda Caprai o tutte quelle che fanno vino non fanno profitto, anzi, ne fanno a volte più degli altri, solo che ovviamente il loro modello produttivo ha incorporato la modernità, prima degli altri. E come sempre, quello che sembrava un settore arretrato diventa un settore a cui guardare con grande interesse”.
Un cambio di passo, quello imposto dal settore primario, capace di attrarre il meglio della creatività giovanile, sempre più vicina al mondo dell’enogastronomia, che il sociologo spiega con un aneddoto: “noi, stando dentro l’ipermodernità, stiamo anche dentro l’economia dell’esperienza, ossia quella per cui se noi andiamo a Venezia in Piazza San Marco e compriamo un caffè, quando il cameriere ci porta il conto e ci dice 10 euro non pensiamo che sia un ladro, perché con quel caffè abbiamo “bevuto” anche il Campanile di San Marco, questa è l’esperienza, tanto è vero che adesso giustamente i veneziani difendono la loro esperienza perché hanno paura che venga distrutta da quelle mega crociere che attraversano la laguna, che non c’entrano niente, perché la gente va in Piazza San Marco per vedere il campanile, mica le navi da crociera. L’economia dell’esperienza, quindi, significa avere la capacità di incorporare in un prodotto un racconto: la manifattura, finora, molto condizionata da fordismo, diceva di produrre merci, purché sia tanto avrebbero avuto comunque mercato, mentre oggi non è così, non basta, dentro alla merce deve essere incorporato il racconto, il software, è fondamentale. Il mio sogno - prosegue Aldo Bonomi - è che ogni “capitalista molecolare” abbia uno “smanettone” al suo fianco, che gli insegni che la rete è importante, oppure un creativo, che gli dica quanto sia importante per vendere un prodotto che sia ben confezionato e ben raccontato, ecco perché ritengo che l’intelligenza sociale diffusa sia tanto fondamentale. E questo risolve anche un problema drammatico, perché noi continuiamo a blaterare di questi giovani che dovrebbero trovare occupazione, ma il vero problema è che abbiamo da salvare 6 milioni di capitalisti molecolari, abbiamo piccole e medie imprese, se ad ognuno di loro affiancassimo un giovane incorporerebbe un sapere in più”.
Alla fine, quella che stiamo vivendo, è una vera e propria rivoluzione, specie sociale e culturale, in cui “la retorica della green economy sullo sfondo fa i conti definitivi con una storia italiana che il più grande sociologo italiano, che era Leopardi (basta leggere lo Zibaldone), descrisse come un’Italia stretta ed un’Italia larga, la prima era quella che contava e la seconda quella che non contava niente. Come dice Bolinghieri c’è sempre un primo popolo che ha sempre pensato ad un secondo popolo: quelle tracce di borghesia che abbiamo avuto era sempre stata una borghesia della città che pensava al contado. Adesso - conclude Bonomi - sta accadendo il contrario: la dimensione fordista della città è in crisi, il cambiamento non arriva più dalla Fiat di Torino, quanto dalle Langhe, il fatto che Terra Madre abbia occupato il Lingotto è un fatto emblematico, come lo è il racconto di quell’asse che va dalla Toscana all’Umbria fino alle Marche, un racconto di territori più che di grandi imprese. Quindi, quello che una volta era il secondo popolo si ritrova a giocare un ruolo di avanguardia del cambiamento, capace di tirarsi dentro il concetto di turismo, di bello, di manutenzione, di rapporto con le medie imprese: per me va benissimo il racconto di Cucinelli e della sua impresa che viene quotata in borsa, però, Cucinelli e Caprai, nelle loro differenze, stanno assieme”.
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